Posts written by poorunfortunatesoul.

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    «Sospetto?». La reazione dell'essere alle sue accuse, per quanto vaghe e infondate potessero risultare, le parve stupita. O era un bravo attore e sapeva mentire bene – e in quel caso probabilmente avrebbe cominciato a sciorinare un elenco infinito di motivi per cui non poteva assolutamente essere un Heartless e per cui, di conseguenza, le sue parole non erano altro che infamanti – o era effettivamente innocente e, semplicemente, non si aspettava di essere scambiato per uno di quei mostri neri dagli occhi gialli. Non sapeva cosa augurarsi: se avesse avuto ragione sarebbe stata in guai grossi, se si fosse sbagliata, bé, avrebbe fatto una figuraccia che non si sarebbe dimenticata tanto facilmente. «Tu credi... che io sia un Heartless?» insistette. Più parlava, più le già fragili convinzioni della ragazza sembravano vacillare, cadere e finire in pezzi sotto i suoi occhi, una alla volta. Era pronta a scommettere che di lì a poco si sarebbe ritrovata ad arrampicarsi penosamente sugli specchi. E non era neanche una cosa che le riusciva bene. Sarebbe stato davvero imbarazzante, oltre che ridicolo.
    Cercò come possibile di non darlo a vedere – non troppo, almeno – per non risultare meno credibile di quanto già non fosse e annuì con un cenno della testa. Non che fosse più sicura al cento per cento della cosa, ma non se la sentiva di rischiare così tanto dando per scontato di aver preso un granchio. «Sei sospetto» ripeté, dando un'ulteriore conferma, come se il gesto di per sé non fosse stato sufficiente.
    La creatura sembrò esasperata. La vide portare le dita a stringere quello che supponeva fosse il setto nasale – qualunque fosse la realtà dei fatti, era anatomicamente bizzarro. «E cosa dovrei fare per farti capire che non sono un Heartless?» le chiese. Quella era davvero una bella domanda, una a cui non era in grado di dare risposta. Avrebbe dovuto chiedere più informazioni al riguardo, in effetti.
    Lo vide aprire le braccia e, nel farlo, il mantello si spostò e mostrò chiaramente la spada che teneva al fianco. Indietreggiò di un passo in un riflesso istintivo, mettendo tra di loro una distanza ragionevole, quanto sufficiente perché potesse darle la possibilità di evitare un possibile fendente e reagire. Normalmente la gente non se ne andava in giro armata a meno che non avesse cattive intenzioni, almeno nel suo mondo.
    «Se tu conoscessi tali creature non avrei bisogno di identificarmi per uno di loro. Si capisce benissimo che non hai mai visto un Heartless». La indispettì sentirsi dire qualcosa del genere. Aveva ragione, non ne aveva mai visto uno, e allora? Erano pericolosi e questo bastava a giustificare il suo essere guardinga e sospettosa. Non le andava a genio essere trattata come... come una stupida, o un'isterica. Stava soltanto reagendo a quello che, ai suoi occhi, era un possibile pericoloso. Anzi, era stata fin troppo educata, evitando di attaccarlo a vista, contrariamente a quanto le era stato suggerito. «Sentiamo, cosa sai di loro?».
    «Che sono piccoli, neri e molto pericolosi» disse, in un modo più brusco di quello che era solita utilizzare. Era spaventata, tesa e irritata. L'adrenalina non andava di pari passo con la sua buona educazione. «E, non per offendere, ma sembri corrispondere perfettamente alla descrizione». E anche se si fosse offeso, non le importava.

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    «Mh?». La bizzarra creatura non doveva essersi accorta di lei, inizialmente. Forse avrebbe dovuto approfittare dell'effetto sorpresa e colpirlo, così avrebbe avuto un sicuro vantaggio in caso di combattimento – perché non ci aveva pensato subito? Stupida, stupida, stupida!
    Senza sapere cosa fare, prese un bel respiro e gonfiò il petto. Non sapeva poi così tanto sugli heartless, a parte qualche loro generica caratteristica fisica e il fatto che fossero davvero molto, molto pericolosi. Erano come animali? Probabilmente no, ma con loro bisognava cercare di mostrarsi più grandi e di non aver paura, ed era la tattica che aveva deciso di adottare. Ma nessuna delle due cose le stava riuscendo particolarmente bene. Per quanto cercasse di trattenere il fiato e di tenere la schiena ben dritta, una ragazza piccina come lei non sarebbe riuscita a incutere timore nemmeno in un bambino, figuriamoci in una creatura potenzialmente letale e affamata di cuori. Sarebbe stato meglio scappare, dare l'allarme, fare qualunque cosa che non fosse mettersi nei guai in quel modo. Come si sarebbe difesa se l'avesse attaccata?
    «Perché?». Si ritrovò a guardarlo con gli occhi sgranati quando lo sentì parlare. In effetti nessuno le aveva mai detto che non potessero farlo, ma le uniche rappresentazioni di heartless che aveva visto – quelle scarabocchiate dalla sua maestra nel grimorio – mostravano come non avessero una bocca. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» la incalzò, incrociando le braccia (o le zampe?) all'altezza del petto.
    In risposta alla sua domanda, tecnicamente no. Si era solo fermato davanti a un'aiuola ad osservare l'enorme castello che si ergeva non troppo distante da lì – era stata al suo interno e sì, era davvero impressionante e meritava di essere ammirato con stupore e meraviglia. Però assomigliava alla descrizione che le era stata fatta di un heartless. Era piccolo e nero, non sembrava affatto un essere umano e non aveva mai visto niente del genere. Eppure, si ritrovò a tentennare per il semplice fatto che le avesse risposto e che non l'avesse attaccata. Si era fatta dell'idea che quegli esseri fossero privi di coscienza e intelletto e che attaccassero qualunque cosa dotata di cuore entrasse nel loro campo visivo, e lui, qualunque cosa fosse, non sembrava adattarsi affatto alla sua immagine mentale. In effetti, nemmeno il Claymore – il sistema di sicurezza che proteggeva quel mondo – era entrato in funzione. Ma se si fosse trattato di un guasto? In realtà non sapeva nemmeno in cosa consistesse e, di fatto, cosa facesse per difendere i cittadini di Radiant Garden. Magari stava già facendo qualcosa e lei non se ne rendeva conto. Oppure aveva preso un'enorme cantonata. In ogni caso, non poteva essere sicura di niente. Di niente.
    «S-Sei sospetto» trovò il coraggio di dire. Le mani non accennavano ad allentare la presa sul bastone, pronta a scattare a qualunque passo falso l'altro facesse. «Dimostrami che non sei un heartless o ti trasformo in una lastra di ghiaccio!» minacciò, con la voce che un po' le tremava nonostante stesse cercando di assumere un tono autoritario.
    Non era tagliata per quel genere di cose. Per niente.

  3. .


    La risata di Ingwe le parve così spontanea che non si sentì presa in giro. Anche volendo, non sarebbe riuscita a offendersi. Si passò il palmo aperto della mano destra sulla guancia, forse nella speranza che il gesto potesse far sparire la prova evidente del suo imbarazzo. I complimenti la mettevano sempre un po' a disagio: non sapeva come rispondere, come gestirli, era complicato e non era mai riuscita a capire quale fosse il modo corretto di porsi in quelle circostanze.
    «Potrà anche essere, ma resta di fatto vero che conosco davvero pochi maghi che sono riusciti a imparare un incantesimo simile grazie ai libri» proseguì il ragazzo e di conseguenza Ailis si ritrovò ad arrossire ancora di più, con le orecchie calde al punto che sembravano andare a fuoco. La magia era una delle poche cose in cui era minimamente capace e ricevere degli elogi in quel campo la lusingava e allo stesso tempo la riempiva di vergogna. Balbettò un ringraziamento a bassa voce, con gli occhi abbassati, e non ebbe bisogno di guardare Ingwe per percepire il suo sorriso gentile mentre chiudeva la questione: «Di niente».
    Aspettò qualche istante, giusto il tempo di sentire il calore che le bruciava il viso scemare un po' e avere la certezza di aver ripreso un colorito normale, prima di prendere la parola. Ancora faticava a credere che il Custode riuscisse a destreggiarsi in più campi della magia e puntasse a specializzarsi in altri ancora. Chissà, con un po' di allenamento avrebbe potuto riuscirci anche lei? «Se...» cominciò, titubante. Forse non era il caso di disturbarlo per simili sciocchezze. Però allo stesso tempo era curiosa, desiderava imparare e... forse era un'opportunista. No, anzi, lo era sicuramente. Ma aveva l'occasione di avere un parere da qualcuno più esperto di lei. Per quanto potesse cavarsela, studiava la magia da pochissimo tempo e sfortunatamente non in modo assiduo e continuativo come avrebbe voluto. «Se volessi cimentarmi con qualcos'altro, cosa mi consiglieresti?» chiese.
    Lo vide dubbioso mentre rifletteva sulla risposta da darle. «Hm» mugugnò, prendendosi qualche altro secondo per riflettere. «Probabilmente l'ideale sarebbe passare dal ghiaccio all'acqua. Potresti farlo anche adesso, se te la sentissi, ma prima finirei di specializzarmi nel controllo del gelo. E poi, devi prima imparare a volare, no?» le fece notare con un sorriso, per poi alzare le braccia e stiracchiarsi. «Una cosa alla volta, quindi».
    Forse si stava illudendo, forse aveva frainteso, forse il custode aveva usato una pessima scelta di parole, ma sembrava quasi una velata promessa di insegnarle, o forse anche solo un'esortazione, come a dirle che poteva farcela. Andava bene in ogni caso e si ritrovò a sorridere senza nemmeno rendersene conto. «Giusto» concordò, mentre i suoi pensieri si allontanavano da lì, pensando a tutto quello che avrebbe potuto fare. Una volta perfezionato il dominio del ghiaccio avrebbe potuto provare con l'acqua o con l'aria, o forse con entrambi. Per non parlare del volo. La sola idea di librarsi in cielo, priva di peso, la elettrizzava al punto che in altre circostanze si sarebbe messa a saltellare e gridacchiare in modo molto poco dignitoso e consono.
    La sua mente ancora vagava nel mare di opportunità che aveva davanti quando Ingwe le parlò, cambiando completamente argomento. «Hmm, hai già qualche idea su cosa fare per vivere?».
    Annuì. «Se possibile, mi piacerebbe tornare a fare la sarta. Però penso che mi accontenterei di qualunque cosa mi permetta di avere un tetto sopra la testa». Rimettersi a fare quel lavoro avrebbe senz'altro comportato essere vittima di ricordi dolorosi, ma in cuor suo sapeva di non poter fare troppo la schizzinosa. Era l'unico mestiere di cui fosse pratica e aveva bisogno di soldi. E aveva orgoglio a sufficienza per impedirsi di chiedere denaro ad altri. «Tu, invece? Sei uno studente o lavori? O entrambe le cose?».
    «Lavoro» rispose prontamente l'altro. «Faccio parte del Comitato di Sicurezza della città».
    Bé, ma allora era effettivamente una guardia, o comunque qualcosa del genere. Nel scoprirlo, si sentì ancor più fortunata e riconoscente per il fatto che non l'avesse arrestata o chissà cos'altro. Allo stesso tempo, però, aggrottò appena la fronte. «Mi sembri giovane, però» notò. Chissà cosa l'aveva spinto ad unirsi ad un'organizzazione simile. Oppure c'era la leva obbligatoria in quel mondo? Non che avesse il diritto di lamentarsi, dopotutto: la sua famiglia aveva tentato di addestrarla fin da piccola. Però non le sembrava comunque giusto, specie perché non si trattava di una scelta, ma di un'imposizione.
    «Eh» commentò il ragazzo. «Nessuno dei miei compagni supera i trenta».
    La notizia parve stupirla. «Davvero?» chiese. C'era da domandarsi sul perché, in realtà. Si veniva congedati quando si era ancora relativamente giovani? Sperava che non fosse perché tutti i componenti del Comitato sopra quella soglia d'età fossero morti in missione. I Cacciatori, da dove proveniva, lasciavano il loro ruolo solo quando diventava loro impossibile combattere, per l'avanzare dell'età o per qualche grave ferita riportata negli scontri. «Tu, comunque, mi sembri molto più che sotto i trenta» disse, nel tentativo di non pensare all'eventualità della morte prematura di giovani guardie.
    Qualcosa nelle sue parole suscitò una risata improvvisa in Ingwe. «Grazie e per fortuna, oserei aggiungere. Credo che a pochi piacerebbe dimostrare quasi il doppio dei propri anni» chiarì, senza perdere l'espressione divertita che aveva in viso.
    Ailis aprì la bocca per scusarsi di essere stata indelicata e maleducata, ma si interruppe prima ancora di cominciare e arricciò le labbra. Si fece due rapidi conti e poi le sfuggì un sorriso. «Ma allora sei più giovane di me» concluse.
    «Come?» fece lui dopo qualche istante di esitazione.
    Non era la prima volta che vedeva quell'espressione stupita sul volto delle persone nello scoprire che era più grande di quanto apparisse. La cosa la divertiva un po', a essere sincera. «Se trent'anni sono più o meno il doppio della tua età, vuol dire che hai tra i quattordici e i sedici anni, no? O giù di lì. Io ne ho quasi venti. Diciannove, per la precisione».
    Ingwe sbuffò, cercando di nascondere un sorriso. «Diciotto il tredici luglio» precisò. «E pensare che credevo fossi più piccola di me».
    «Resto comunque la più grande» cinguettò allegramente, senza riuscire a privarsi dell'espressione compiaciuta che aveva stampata in faccia. La differenza d'età tra di loro non era così grande come aveva ipotizzato in un primo momento, ma quell'anno o poco più di vantaggio le dava automaticamente – dal suo punto di vista – il diritto di considerarsi e diventare una sorta di mamma chioccia. «In molti sbagliano. Dicono tutti che sembro più piccola».
    «A tal proposito, quanti anni pensavi avessi?» chiese, a quel punto giustamente incuriosito.
    «A guardarti, massimo massimo sedici. Diciassette ad essere generosi» rivelò. Mentre parlava, colse il gesto del ragazzo nell'appoggiarsi ad un pannello, ma non capì a cosa servisse. Quasi temette un suo malore e pensò di quei movimenti come la ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi per non cadere, ma Ingwe sembrava stare bene. I rumori del macchinario che si attivava la colsero impreparata e la spaventarono, facendola sobbalzare. Si voltò nel tentativo di individuare da dove provenissero quei suoni e notò una sorta di... grossa scatola che si stava dirigendo verso di loro, sospesa nel vuoto. La guardò con un misto di stupore e curiosità, ma anche con un certo timore. «Funziona con la magia?» domandò – e c'era d'aspettarselo che la prima cosa che avrebbe chiesto al riguardo sarebbe stata di quel tenore.
    «Esatto. Non saprei dirti di preciso come, tuttavia. So solo che le cabine si muovono grazie a vari sistemi magici su tracciati predefiniti e che queste-», accompagnò le parole ad un leggero colpo delle dita contro quella che doveva essere una sorta di superficie invisibile, perché subito dopo dei cerchi colorati apparvero proprio nel punto in cui le nocche si erano appoggiate, «-barriere sono alimentate dallo stesso sistema».
    Se avesse avuto carta e penna a disposizione – non il grimorio, però – si sarebbe messa a prendere appunti al riguardo. Doveva essere meraviglioso un mondo in cui la magia veniva usata anche per le cose di tutti i giorni, come quella... qualunque cosa fosse. Non vedeva l'ora di scoprire per cos'altro venisse usata, cos'avevano inventato e come avessero deciso di impiegarla. ««E... cosa fa, precisamente?»» domandò, mentre osservava in lontananza quella specie di grossa... cos'era? Una gabbia? Una specie di gazebo?
    «Serve per muoversi più velocemente all'interno del castello. Districarsi quotidianamente a piedi tra tutti i corridoi, saloni, scale e torri considerando l'ampiezza del bastione richiederebbe davvero troppo tempo altrimenti».
    «Oh!» esclamò la ragazza, impressionata. In effetti quel posto era immenso e labirintico. Non poteva biasimarli per aver adottato una soluzione decisamente più comoda. «Immagino che il primo requisito per entrare a far parte del Comitato sia avere un'ottima memoria, per ricordare la strada verso l'uscita» commentò, in un pessimo tentativo di fare una battuta. Ingwe ridacchiò, ma dubitava che fosse realmente divertito. «Forse non proprio il primo, ma di sicuro è un requisito indispensabile».
    Un fruscio di fronte a loro le suggerì che la barriera invisibile fosse svanita e il Custode le fece cenno di andare. Mosse prima una mano in avanti per assicurarsi che non ci fossero più ostacoli. Un po' titubante – quella cosa non le sembrava esattamente stabile – mise un piede in avanti per entrare e poi anche l'altro. Si spostò di lato per lasciare al ragazzo lo spazio per passare. «È come una carrozza. Ma più piccola. E senza cavalli. Né conducente» disse, ma più a se stessa per tranquillizzarsi che a Ingwe.
    «E vola. E si muove da sola» proseguì lui. «E potrebbe scontrarsi con un'altra cabina che viene dalla direzione opposta».
    «Oh bé, quello lo fanno anche le carrozz—come potrebbe scontrarsi?!» esclamò con voce stridula non appena si rese effettivamente conto di quel che Ingwe aveva appena detto. L'idea di stare in quel veicolo, sospesa nel vuoto, col rischio di schiantarsi contro un'altra cabina e precipitare per chissà quanti metri, adesso la terrorizzava.
    La risata del ragazzo che seguì subito dopo – e che lui tentava malamente di mascherare coprendosi il viso con una mano - sciolse buona parte della tensione che si era creata, anche se qualche nodo, quando lanciò un'occhiata sotto di loro, rimase bello stretto. Non soffriva di vertigini, ma nel caso di una qualche avaria la caduta sarebbe stata bella lunga. «Scherzavo, scusa».
    Guardò Ingwe come se avesse appena cercato di attentare alla sua vita, ma non riuscì a celare quel sollievo che l'aveva pervasa nello scoprire che non stava dicendo sul serio. «È stato uno scherzo di pessimo gusto» borbottò. Non si era offesa, solo sinceramente spaventata – per quanto fosse in parte colpa sua, avrebbe dovuto intuirlo subito. Avrebbe dovuto averci fatto l'abitudine, ormai. Valerie, spesso con la complicità di Constance, si divertivano molto a farsi beffe di lei. Una volta le avevano fatto credere che uno spirito maligno dimorasse in uno degli armadi del negozio e per un mese intero se ne era tenuta alla larga e aveva ricercato un modo per scacciarlo. Inutile dire che quelle due streghe – inteso in ogni possibile accezione del termine – si erano sbellicate dalle risate ai suoi danni.
    Quando Ingwe parlò di nuovo, le parve sinceramente dispiaciuto. «Scusa» disse con tono pacato. Forse aveva esagerato: non era davvero arrabbiata oppure offesa, solo un po' spaventata. Il terrore l'attanagliò per un istante mentre la cabina svoltava a destra, ma quando ebbe l'impressione che si fosse tutto stabilizzato, si tranquillizzò.
    Guardò il ragazzo mentre gonfiava le guance per assumere il broncio più finto e buffo che riusciva a fare. Si sciolse poi, e sorrise ancora. «Scuse accettate» disse. Portò una mano sulla parete della cabina, muovendola appena come se stesse cercando di aggraziarsi un animale feroce con delle coccole. «Mi ci vorrà un po' per abituarmi a tutto questo».
    «È normale. Ancora non mi ci sono del tutto abituato nemmeno io» fu la risposta di Ingwe. Le parve che il ragazzo esitasse un momento, forse solo uno di troppo, prima di continuare a parlare. «Spesso potrà sembrare che le cose vanno troppo velocemente, che gli eventi accadono troppo in fretta, che non riesci a stargli dietro. Ogni volta che credi di essere riuscito a comprendere tutto quello che c'era da sapere, accade qualcosa di nuovo, qualcosa che sconvolge il tuo mondo e ti fa ripensare a tutto quello che è successo sin da quando sei qui. È come se il tempo scorresse più velocemente del normale». Non c'era bisogno di essere un genio per capire che qualcosa non andava. O meglio, che qualcosa, in passato, non era andato come Ingwe avrebbe voluto, o era semplicemente successo e aveva cambiato tutto, probabilmente non in meglio. «Però, forse, è meglio così. Niente ristagna e tutto continua a scorrere in avanti».
    Mosse appena le dita appoggiate sul metallo della struttura, piegandole come se avesse avuto l'impulso di chiuderle a pugno, ma senza portare il gesto a compimento. «Non è poi così male» mormorò. Ailis sapeva di avere un bisogno quasi viscerale di cambiamenti e, più velocemente fossero arrivati, meglio sarebbe stato. Era stanca di... di ristagnare. Di restare lì, ferma, senza concludere niente. Senza mai fare nulla di buono, nulla che potesse rendere felice lei o chi le stava attorno. Si schiarì appena la voce, rendendosi conto che Ingwe doveva averla sentita a malapena. «Certo, forse si ha la sensazione di restare indietro, ma in fondo ognuno si muove al proprio passo. Bisogna solo trovare un compromesso». Forse era ipocrita che proprio Ailis parlasse così, lei che scappava ogni volta per evitare il confronto.
    Fu inaspettato, data la situazione, vederlo sorridere. «In fondo, la vita è fatta di compromessi, no? Forse non è molto incoraggiante detta così, ma… dipende tutto dal compromesso che uno trova. Credo». Sembrava un po' imbarazzato nel fare simili discorsi. La cosa la intenerì un po'. «Immagino di sì».
    La cabina continuava a muoversi a velocità costante, fortunatamente senza oscillare e senza fare rumori troppo strani che potessero farle presagire una morte improvvisa e prematura. Forse poteva anche cominciare a rilassarsi un po' e godersi il viaggio e gli agi che comportava quella... quella cosa che li trasportava da una parte all'altra.
    «Se posso sapere... come mai siete tutti così giovani nel Comitato? Non ci sono, non so, veterani?» domandò.
    Probabilmente la sua curiosità lo aveva messo in difficoltà. Lo notò nel suo stringere le labbra, negli occhi che si spostavano altrove, nella mano che saliva verso la guancia, nel sospiro che abbandonò le sue labbra prima che le rispondesse. «Dipende da cosa intendi con veterani. La nostra… “professione” di solito non ci permette di continuare a lavorare anche da anziani. Oltre a ciò, a causa di alcuni eventi relativamente recenti, quasi tutte le persone con i requisiti adatti per entrare a far parte del Comitato sono scomparse dall'universo per dieci anni. Si può dire che siamo quasi andati estinti».
    Non era certa di voler sapere altro al riguardo. Le sembrava una storia triste in partenza, fin dalle premesse. «Capisco» mormorò. Si morse il labbro inferiore, un po' tesa. «Ci sono... ci sono così tanti rischi in quello che fate?» si azzardò a chiedere. C'era una punta di autentica apprensione nella sua voce. Forse era esagerato preoccuparsi per qualcuno che aveva appena conosciuto, ma non riusciva a farne a meno.
    «Abbastanza» lo sentì mormorare. Il ragazzo la guardò in modo gentile, e quasi non riuscì a capire quell'espressione. Lo stava quasi obbligando a parlare di cose spiacevoli a cui probabilmente avrebbe preferito non pensare. Avrebbe potuto allontanarla, ignorarla, risponderle che in fondo non erano affari suoi e che avrebbe fatto meglio a non impicciarsi... ma non l'aveva fatto. E nemmeno sembrava che l'idea gli fosse passata di mente. «Da quanto so, tuttavia, la situazione è stata questa solo negli ultimi anni, solo da quando gli Heartless sono comparsi nel Regno della Luce. Prima di allora, il nostro compito era quello di mantenere intatto l'ordine dei mondi e intervenire in quei rari casi le forze dell'Oscurità avessero minacciato l'universo». La spiegazione venne interrotta dall'ingresso della cabina nella torre centrale, dove i colori sembravano essere più caldi e intensi. Quando Ingwe alzò lo sguardo verso l'alto e lo imitò, capì il motivo. Sopra le loro teste capeggiava un rosone dalle vetrate colorate. Tutto, di quel posto, le sembrava maestoso, incredibile. «Quando riusciremo a porre fine alla crisi in corso, allora il nostro lavoro tornerà a essere quello dei nostri predecessori».
    La prima cosa che, istintivamente, le venne da dire, era che le dispiaceva. Si morse la lingua in tempo, per fortuna. Parlare in quel modo sarebbe stato come insinuare che non ce l'avrebbe fatta, che non sarebbe sopravvissuto o che sarebbe scomparso come quegli altri suoi compagni. No. Se c'era una cosa che aveva imparato, quando si parlava con persone che rischiavano la vita ogni giorno, era proprio quello. Piuttosto, si doveva pensare al futuro, parlare di cosa sarebbe successo una volta superata la crisi. Fece ricorso a tutto l'ottimismo che aveva in corpo e si esibì in quello che doveva essere un sorriso incoraggiante. «Quando accadrà, cosa farete? Nel senso. Sarà qualcosa di cui festeggiare. Ci hai già pensato?» domandò. Pensare positivo non era proprio da lei. E probabilmente nel parlare così avrebbe fatto la figura della sciocca, ma era comunque un'eventualità migliore di incupirlo ulteriormente.
    Ingwe trattenne una risata e quel gesto la fece ben sperare. Forse, una volta tanto, aveva detto la cosa giusta. «Vedremo» le disse, con una punta di allegria nella voce. «Si tratta di un traguardo ancora così lontano che non ha mai avuto modo di pensarci seriamente». Ailis annuì a quelle parole. Era normalissimo, però farlo poteva essere uno sprone a fare del proprio meglio e, allo stesso tempo, cercare di sopravvivere. Si ritrovò a essere contenta di averlo spinto a pensarci. «Probabilmente...» cominciò, incerto. «Probabilmente sarei felice di continuare a studiare la magia. Forse viaggiare tra i mondi non sarebbe male. Ma anche continuare a vivere qui a Radiant Garden non sarebbe male. Una piccola casa nel borgo, magari, in un zona tranquilla».
    «Nessuno ti impedisce di fare tutte e tre le cose. Puoi studiare la magia dei vari mondi in cui vorrai andare, e quando sei stanco puoi tornare qui, a casa tua» propose. Non le sembrava un'idea irrealizzabile.
    Il ragazzo si lasciò andare a una risata sommessa. «Potrei. Non sarebbe male. Ma prima c'è da uscire da questa situazione. Poi ci si penserà meglio».
    «Però non è male fare dei progetti» disse lei.
    La cabina cominciò a rallentare la propria corsa fino a quando non si fermò. Non si azzardò a fare nemmeno un passo, però. Non sapeva se dovesse essere attivato o disattivato qualcosa, quindi lasciò che fosse Ingwe il primo a muoversi. Si sentirono uno sfrigolio e poi un sibilo. Il custode si spostò di lato in modo da permetterle di passare per prima e, con un cenno del capo in segno di ringraziamento, proseguì oltre, scendendo da quel macchinario che con ogni probabilità avrebbe abitato i suoi incubi per almeno una settimana.
    «Manca ancora molto all'uscita?» si ritrovò a chiedere. Stava diventando impaziente: la curiosità, insieme a una buona dose di timore, la stava logorando dall'interno. Ingwe scosse la testa. «No. Giusto pochi metri».
    La conferma delle sue parole le venne data da un chiacchiericcio di cui, se ne era resa conto solo in quel momento, aveva sentito la mancanza. Il vociare delle persone sembrava rendere tutto meno fittizio, come se la presenza di altri esseri umani nello stesso spazio potesse garantirle che ciò che vedeva era reale – avrebbe potuto trattarsi di un'illusione, ma sperava di cuore che non fosse così, non per la seconda volta di seguito. Senza quasi accorgersene, si ritrovò a inspirare col naso e trarre un profondo sospiro di sollievo. A quel punto si guardò intorno e immediatamente sgranò gli occhi mentre la sua bocca assumeva la forma di una “o” piena di stupore.
    «Certo che se non fate le cose in grande, non potete dirvi soddisfatti» balbettò mentre cerava di capire esattamente quanto quel salone fosse esteso. Il soffitto doveva trovarsi una ventina di metri sopra le loro teste e quasi le venne un capogiro mentre lo osservava. L'ingresso del castello era ampio, immenso quasi. La faceva sentire davvero minuscola.
    «Ehi, non includermi» borbottò il ragazzo. «E poi il castello è antico, avrà minimo qualche centinaio d'anni». Lo seguì lungo la scalinata, scendendo un gradino dopo l'altro e portando entrambe le mani a stringere la tracolla tra le dita. Era un gesto istintivo: era abituata a strade piene di ladruncoli e borseggiatori, e teneva troppo al libro che aveva con sé per permettere che qualcuno glielo rubasse. Per non parlare poi che i pochi soldi che aveva erano dentro la borsa. Non sapeva nemmeno se la valuta fosse la stessa, ma alla peggio avrebbe potuto rivendere le monete a qualche eccentrico collezionista? Qualcosa avrebbe dovuto fare.
    «Ti ringrazio per avermi accompagnata fin qui, Ingwe» disse con un sorriso leggero sulle labbra e tanta, tanta gratitudine. «Non credo che sarei stata in grado di arrivare fin qui da sola».

  4. .
    Tan tan taaaaaan. Un po' banale, ma comunque ci si prova u_u'

    a ghost I don't know


    L'ago si muoveva troppo. Vibrava come se fosse retto da una mano tremante, preda di violenti spasmi. Se fosse stato di un materiale più malleabile, ne era certa, avrebbe cominciato a contorcersi su se stesso, perdendo la sua forma e privandola di conseguenza quel poco di pazienza che le era rimasta. L'estremità del filo di cotone bianco galleggiava a pochi centimetri di distanza, oscillando verso l'altro e il basso, quanto sufficiente per rendere un'operazione semplice e basilare – quanto impegno ci voleva a inserire un filo nella cruna di un ago? - impossibile. Entrambi gli oggetti levitavano di fronte al suo viso e, a forza di guardarli, gli occhi avevano cominciato a bruciarle e la vista cominciava a tradirla, sfocando i contorni e sovrapponendo le immagini una sull'altra. Abbassava e sollevava le palpebre di continuo per tentare di mitigare quella sensazione, ma si ripresentava sempre di lì a pochi secondi. Aveva imparato ad ignorare il leggero dolore che i gomiti, appoggiati al tavolo, le davano e le mani, parallele l'una all'altra con le dita leggermente piegate in avanti, erano colte da un leggero tremore dovuto allo sforzo prolungato. Tra di esse, come retti da fili invisibili in balia di forti raffiche di vento, stavano gli oggetti del suo odio, il suo esercizio. Un'operazione basilare da compiere usando le mani, ben più complicata con la magia.
    Stava in quella stessa posizione ormai da tre ore, senza considerare che non aveva fatto altro nelle ultime due settimane, da quando aveva avuto inizio il suo apprendistato. Dopo i primi due giorni di tentativi, in cui era riuscita a far levitare l'ago senza farlo schizzare via in ogni angolo della stanza, non c'erano stati grandi miglioramenti.
    Si concesse un respiro profondo, insieme ad un ultimo tentativo. Forse il problema era che non usava potere a sufficienza e questo rendeva tutto instabile. Mosse le mani in modo di farle avvicinare l'una all'altra, centimetro dopo centimetro, con gesti il più possibile lenti e calibrati. Vide gli utensili tremare ad una frequenza maggiore, quindi provò a fare l'esatto contrario, diminuendo la quantità di magia usata. Allontanando i palmi i movimenti diventarono meno convulsi, rallentarono pian piano, sempre di più, fino a quando non caddero sulla superficie liscia e scura dello scrittoio, inermi. Il suono metallico dell'ago che impattava sul legno le sembrò la sentenza definitiva del suo fallimento.
    Lasciò ricadere le braccia sul tavolo – sentì la sottile punta di acciaio freddo pizzicarle la pelle – e gettò la testa in avanti. Sbatté più volte la fronte sui polsi incrociati, incapace di capire dove stesse sbagliato o cosa le impedisse di portare a termine un compito che, all'apparenza, le era sembrato di una semplicità quasi ridicola. La frustrazione che l'aveva accompagnata nei giorni precedenti cominciò a scemare. Quel fastidio che sentiva all'altezza dello stomaco lasciò il posto ad una sensazione di pesantezza che le opprimeva il petto mentre la rassegnazione dilagava. Avrebbe dovuto essere abituata al fallimento, ormai. La magia non faceva per lei e sarebbe stata solo una delle tante voci nella lista delle cose che non era in grado di fare. Non era la prima e non sarebbe stata l'ultima.
    «Ancora problemi?». La voce di Constance la raggiunse dalla cima delle scale. Non aveva sentito la porta aprirsi e richiudersi, se l'avesse fatto forse avrebbe avuto il tempo di farsi trovare in una situazione un po' più dignitosa, ma ormai il danno era fatto e non valeva la pena di porvi rimedio. Ascoltò il rumore del tacco basso delle sue scarpe che calpestavano ognuno dei dieci gradini che separavano il piano della sartoria dallo scantinato con una cadenza perfettamente identica a se stessa, come se avesse studiato anni come farlo nel modo più elegante e aggraziato possibile. Era qualcosa che Valerie avrebbe fatto – ed era quasi certa, conoscendola, che l'avesse fatto sul serio – ma che a Constance riusciva naturale. Lei, dal canto suo, a malapena riusciva a camminare per la strada senza inciampare sulle pietre sconnesse.
    La sentì spostarsi sulla destra, verso la parete tappezzata di ampie vetrate dalle quali entrava la luce intensa di mezzogiorno. Aveva sempre l'impulso di aprirle per favorire il cambio d'aria, per poi ricordarsi che non potevano farlo. Erano finte, così com'era falso il cielo su cui si affacciavano. Rispecchiava quello fuori dalla maison per un puro vezzo artistico di Valerie. Amava curare ogni cosa nei minimi dettagli e, con ogni probabilità, era questo che la rendeva così brava nel suo lavoro.
    Constance si mise poi accanto a lei e Ailis, di rimando, si voltò nella direzione opposta, con la guancia appoggiata contro la morbida pelle dell'avambraccio. L'unico occhio non coperto era puntato contro l'enorme libreria stipata di volumi e strane strumentazioni di cui non conosceva l'uso, ampolle ricolme di liquidi e sostanze misteriose. Non voleva guardare la ragazza, non ne aveva il coraggio. Era in imbarazzo e non sarebbe riuscita a sostenere né il suo sguardo né i suoi rimproveri. Non voleva sentirsi dire che era una femminuccia, che doveva metterci più impegno, che doveva continuare a provare fino alla morte. Sotto quell'aspetto, la giovane strega aveva molto in comune con sua zia Enya, con la differenza che Constance le voleva bene, mentre per la cacciatrice non era certa di poter dire altrettanto.
    Chissà cosa sarebbe successo. Se non riusciva a praticare la magia, cosa ne sarebbe stato di lei? L'avrebbero licenziata, probabilmente. Avrebbe perso il lavoro e avrebbe dovuto trovarne un altro, si rifiutava di continuare con l'addestramento da cacciatrice. Oppure avrebbero potuto ucciderla per assicurarsi che non rivelasse a niente a nessuno, o per evitare che le facesse scoprire anche solo per errore. L'ultima opzione le parve talmente poco plausibile che la scartò senza nemmeno prenderla in considerazione. Valerie e Constance non erano così. Rappresentavano l'esatto opposto di ciò che le avevano sempre insegnato sulle streghe – non erano perfide né crudeli e non usavano i loro poteri per fare del male a nessuno, per alterare pensieri, rovinare vite o qualunque altra cosa le avessero inculcato in testa fin dalla nascita.
    Udì un fruscio di vestiti. Da qualche parte lì vicino, Constance aveva incrociato le braccia al petto. «Lo capisco. Non è semplice come sembra». Ailis alzò la testa e ruotò il busto per poter guardare l'altra, ogni precedente remora spazzata via. Dov'erano le ramanzine? Dov'era il tono autoritario? Dov'era la Constance che conosceva?
    La strega parve inizialmente confusa ma, colta l'implicita accusa di essere impazzita o stata sostituita con una persona più gentile, sul viso le si dipinse un'espressione corrucciata, quasi offesa. Vedendola con le labbra imbronciate e la fronte aggrottata, Ailis dovette imporre ad ogni muscolo facciale di non muoversi, di non accennare nemmeno l'ombra di un sorriso o di una risata. «Che c'è?» sbottò, a suo modo imbarazzata. «Te l'ho detto, non è facile. Specie se sei tesa e spaventata».
    Avrebbe voluto risponderle che non aveva paura e non passare così per la vigliacca che era, ma sapevano entrambe che sarebbe stata una bugia. Ogni volta che pensava a cosa sarebbe successo se fossero state scoperte, ripensava al rogo cui l'avevano fatta assistere quando aveva otto, forse nove anni. In una città vicina, una ragazza era stata accusata di stregoneria da alcune sue coetanee e l'Inquisizione aveva svolto le sue indagini. Il suo clan era stato invitato ad assistere alle operazioni: era un'ottima occasione per insegnare qualcosa alle nuove generazioni. Il processo era stato una farsa, la sentenza di condanna era già stata emanata, seppur non ufficialmente, quando le autorità avevano raccolto la denuncia. Nessuna possibilità di appello, nessuna concessione di grazia. L'esecuzione si era tenuta il giorno stesso, un rogo nella piazza principale in cui era accorsa tutta la popolazione e anche qualcuno da fuori città. La ragazza era stata trascinata di peso. Puntava i piedi, scalciava, cercava di mordere e graffiare i suoi aguzzini, ma lei era una, sola, minuta, mentre loro erano tanti e più forti di lei. Mentre la legavano al palo non faceva che piangere e supplicare, ma nessuno aveva orecchie per ascoltarla o la volontà di prestarle aiuto. Quando avevano acceso il fuoco e le fiamme avevano cominciato a lambirla, aveva cominciato a gridare. Quelle urla avevano abitato i suoi sogni per settimane e per altrettanto tempo non era riuscita a liberarsi completamente dell'odore nauseabondo della carne bruciata. Non voleva fare la fine di quella poveretta. Come poteva non avere paura?
    Constance sciolse le braccia e si portò la mano destra a massaggiarsi il collo, scostando alcuni riccioli biondi dalla spalla. «Ho avuto problemi anch'io, all'inizio. Val mi aveva consigliato di...», tentennò per un istante, «scrivere qualcosa. Un diario, una lettera, quello che vuoi». Aveva pronunciato quelle parole quasi forzatamente. Non doveva considerarla un'idea molto valida. Conoscendola, probabilmente trovava imbarazzante mettere su carta i suoi pensieri e i suoi timori. Non poteva darle torto. «Nessuno lo leggerà. Rimarrà una cosa personale, potrai farne quello che vuoi. Ti aiuterà, credo».
    «A te è servito?» chiese. La domanda si era formulata da sola e le aveva dato voce senza nemmeno accorgersene. Non era riuscita ad impedirselo. Forse, anche se avesse avuto il tempo di pensarci, non l'avrebbe comunque fatto. «Ti ha aiutata a non avere paura?».
    La mano di Constance ricadde lungo il fianco con una lentezza che le parve esasperante. «No» ammise. «Però poi sono migliorata». Alzò le spalle. Il significato era chiaro: fine della questione. Niente più domande personali. «Lascia perdere quei cosi e mettiti a scrivere. Però dopo. È ora di pranzo e Val ha comprato una torta. Non vede l'ora di assaggiarla e dubito che ce ne lascerà una fetta se non ci sbrighiamo».


    Infilzò l'ago nel rocchetto di filo e li spostò distanti da lei, all'estremità opposta del tavolo, dove non avrebbe potuto urtarli o farli cadere. Allungò un po' la mano in avanti per raggiungere il più vicino dei sei cassetti che occupavano la parte superiore dello scrittoio e prese a tentoni un foglio di carta, una penna e una boccetta d'inchiostro. Lisciò la carta con entrambe le mani per spianare eventuali increspature, controllò che la stilografica fosse carica. Ogni operazione venne compiuta con voluta lentezza nel tentativo di posticipare il più possibile il momento in cui si sarebbe ritrovata faccia a faccia con quel foglio ruvido e giallognolo. Constance era stata restia nel proporre quella soluzione e capiva perché. Era insensato, imbarazzante, e non capiva come potesse aiutarla a controllarsi. Mettere per iscritto i suoi pensieri non li avrebbe riordinati, non avrebbe fatto sparire i suoi timori, non l'avrebbe resa migliore o più brava. L'inchiostro non poteva fare miracoli.
    Riaprì il cassetto con un gesto nervoso e ripose tutto al suo interno, chiudendolo con un colpo secco. Avvicinò le dita alla spola, ma senza toccarla. Lasciò che il potere fluisse attraverso i polpastrelli e la permeasse. La vide cominciare a muoversi a scatti, avanti e indietro, con solo l'ago ad impedirle di compiere una rotazione completa e rotolare via, lontano da lei. Ritrasse il braccio e quella si fermò, come se i fili che l'avevano manovrata fossero stati tranciati di netto. Le dita si ripiegarono sui palmi mentre appoggiava le mani sulla cosce, lo guardo abbassato. La frustrazione – la paura di fallire ancora - si fece strada dentro di lei, rosicchiando via poco alla volta ogni briciola di razionalità che trovava sulla sua strada.
    Non poteva andare avanti così. Non si trattava di non riuscire a fare qualcosa che le sembrava elementare, ma di non essere in grado di padroneggiare le sue capacità: quante volte nel corso degli anni aveva rischiato di essere scoperta? Quanti battiti aveva perso nel timore che qualcuno avesse notato qualcosa? Quante notte insonni aveva passato per paura che la sua stessa famiglia la giustiziasse nel sonno? E poi adesso c'erano anche Constance e Valerie, ogni suo errore si sarebbe ripercosso anche su di loro.
    Deglutì il malumore e afferrò la piccola manopola del cassetto, tirandola a sé con una certa riluttanza. Recuperò carta e penna e li dispose di nuovo davanti a sé. Mettersi a scrivere le sembrava ancora un'idea stupida, ma se poteva farla uscire da quella situazione di stallo, tanto valeva provare.


    Scrivere un diario era fuori discussione. Le avrebbe richiesto giorni, se non intere settimane. Le sembrava un procedimento troppo lungo, troppo laborioso, mentre lei voleva dare un taglio netto alla faccenda e trovare una soluzione il più possibile rapida. La scelta ricadde, in mancanza di alternative migliori, sulla lettera.
    Tentò di pensare a chi indirizzarla, ma non le veniva in mente nessuno. Spedirla era fuori discussione, però le sembrava veramente patetico iniziare con un “Caro John Doe, è da tanto che non ci sentiamo”. Valerie e Constance vennero scartate immediatamente. Passava più tempo con loro che con chiunque altro, sarebbe stato insensato. La sua famiglia – sua zia, suo padre – probabilmente non avrebbe nemmeno aperto la busta, letto il mittente. O forse suo padre sì, ma sarebbe stato imbarazzante. Non rimaneva nessuno che conoscesse.
    Nessuno che conoscesse.
    Strinse le labbra mentre la punta del pennino grattava la carta, riversando inchiostro lì dove la mano incerta di Ailis tracciava linee tremolanti e poco accurate.

    Egregia Signora Cait

    Si fermò dopo sole tre parole, indecisa su come procedere. Come avrebbe dovuto rivolgersi a lei? Signora andava bene o avrebbe preferito cacciatrice? Doveva usare il cognome da nubile come faceva zia Enya anche prima di rimanere vedova – cosa che le aveva fatto sorgere quel dubbio – oppure quello da sposata?
    Portò la mano libera a coprirsi gli occhi e si concesse un sospiro. Non poteva essersi già bloccata. Non quando sua madre era ormai polvere e non avrebbe mai letto quella lettera, quindi cosa avrebbe potuto importarle del modo in cui le avrebbe scritto? Era poco più di un fantasma. Si aggirava tra le pareti di casa sua ogni volta che qualcuno pensava di lei o ne parlava: la vedeva in ogni fotografia in bianco e nero ingiallita dal tempo; era in ogni sguardo frustrato che Enya le lanciava quando falliva in un compito che Cait sarebbe riuscita a svolgere in un batter di ciglia; era l'ombra che accompagnava sempre suo padre da che lo conosceva, quella tristezza che non riusciva a scrollarsi di dosso, quella sensazione di perdita che, nonostante i tentativi – Dio solo sapeva quante volte avesse provato -, Ailis non riusciva a colmare. Per tutta la vita si era sentita mettere a confronto con quello spettro, con quell'immagine idealizzata che tutti avevano della donna che era morta nel farla nascere. Eppure le sembrava di non conoscerla affatto.
    «Egregia Signora Cait? Dici sul serio?». Il corpo di Ailis scattò come una molla. Si chinò in avanti sullo scrittoio mentre le braccia correvano a nascondere il foglio di carta – troppo tardi, ormai – da sguardi indiscreti, col solo risultato di sporcarsi la manica sinistra con l'inchiostro non ancora asciutto. La risata di Valerie le rimbombò nelle orecchie e sentì l'imbarazzo risalirle lungo il collo in vampate di calore che le tinsero le guance esangui di un rosso vivo. Ogni parte del viso, dalla fronte al mento, era pervasa da un fastidioso pizzicore. Una mano gentile le si posò sulla testa, accarezzando distrattamente alcune ciocche di capelli. «Scusa, scusa. Non volevo prenderti in giro» disse Valerie, ma Ailis non ne era così tanto sicura. Non perdeva mai occasione di farlo, ma non ci metteva mai cattiveria. Era impossibile offendersi. «È solo che... Cait è il nome di tua madre, giusto?». La ragazza annuì. «E allora! Vuoi davvero essere formale con tua madre? Devi parlarle senza alcuna remora. Non potrà giudicarti. Nessuno può farlo».
    «Ma se l'hai appena fatto tu stessa» le fece notare in un borbottio, causando l'ilarità dell'altra. «Vero. Ma sono la tua maestra e il tuo datore di lavoro. È mio compito giudicarti, cherie».
    Valerie si sporse in avanti per prendere un altro foglio dallo scomparto, spostando quello su cui la sua allieva aveva iniziato a scrivere un po' più in là. Portò entrambe le mani sulle spalle della ragazza, appoggiando per un istante la guancia sui suoi capelli. «Alice», ormai aveva perso la speranza di farsi chiamare da lei, e da Constance, col suo vero nome, «smettila di essere così rigida, per una volta. Prenditi il tempo che ti serve. Di' tutto quello che hai da dire e non preoccuparti di nulla». La cinse in un abbraccio affettuoso che Ailis ricambiò, in modo impacciato, portando entrambe le mani su quelle di Valerie, intrecciate all'altezza del petto, poco sotto la gola. Inspirò piano e si riempì le narici del delicato profumo di rose della maggiore. Era un odore ormai familiare, che la rilassava, attenuava paure e preoccupazioni come se fossero lontani lontani.
    «Lo so che non è facile, però provaci. Va bene?». La ragazzina annuì e, come premio, Val appoggiò le labbra sui suoi capelli in un bacio affettuoso. «Brava, cherie» la lasciò con un sussurro appena udibile. Sentì l'abbraccio sciogliersi e poi il rumore secco del tacco che colpiva i gradini. La porta si aprì e si richiuse con un lento cigolio dei cardini. Lo scantinato piombò nel silenzio, senza nulla che potesse testimoniare la venuta della strega, se non la scia aromatica che aveva lasciato al suo passaggio e la sensazione di morbido calore che Ailis provava dove le sue braccia l'avevano stretta.
    Alzò le mani verso soffitto e distese i muscoli per qualche istante. Quando il suo sguardo cadde sul nuovo foglio di carta si concesse un sospiro. Era inutile tergiversare, inutile tentennare ancora. Doveva scrivere. L'avrebbe fatto.

    Cara mamma,
    sono Ailis. Non sono sicura che tu conosca il mio nome. Nessuno mi ha mai detto chi me l'ha dato, se siete stati tu e papà a sceglierlo insieme o no. Forse non vorrai saperne nulla di me, visto che se sei morta è principalmente per colpa mia, ma ho voluto almeno tentare. Credo che tu sia l'unica persona con cui possa parlare.

    Aveva appena iniziato e già si sentiva una stupida. Una stupida che scriveva ad una morta. Patetica. Si morse il labbro inferiore e tentò di ignorare quella spiacevole sensazione di disagio. “Nessuno lo saprà mai. Nessuno lo saprà mai” ripeté più volte. “Continua, non ti fermare. Nessuno leggerà mai”.

    Come stai, ovunque tu sia? Per quanto mi riguarda, non molto bene, anche se mi piacerebbe rassicurarti del contrario. Probabilmente smetterai di leggere – smetteresti, se tu potessi farlo – quando te lo dirò, ma sono una strega.

    Dovette fermarsi perché la mano le tremava al punto che la parola 'strega' risultava quasi illeggibile. Fino a quel momento non l'aveva mai detto, né scritto. Tre semplici parole che descrivevano ciò che era e che non aveva mai avuto il coraggio di pronunciare, nemmeno nella stanza più isolata, nemmeno sottovoce. Farlo avrebbe significato renderlo reale, era come urlarlo al mondo intero. Era come firmare col sangue la propria condanna a morte. Non aveva fatto altro, per anni, che negare. Mentiva a se stessa ripetendosi che non era una strega, che ogni fenomeno bizzarro che le succedeva attorno fosse frutto della sua immaginazione e del caso. Lei non c'entrava. Faceva parte di una famiglia di cacciatori, uccidevano streghe da secoli. Non poteva essere una di loro.
    E invece lo era. Lo era e, se ne rendeva conto solo in quel momento, non l'aveva ancora accettato.
    Una vocina dentro di lei la supplicò di fermarsi. Ebbe un brivido nel riconoscervi quella straziante della giovane finita al rogo anni prima. Nella sua mente si formò l'immagine della ragazza mentre piangeva lacrime nere come la pece. Non devi dire quelle cose. Devono restare un segreto, nessuno deve sapere. Nessuno deve leggere o sentire. Nessuno, nessuno nessuno, nessuno!
    Ma la penna continuava a scorrere sulla carta, strumento nelle mani di una volontà opposta, formando linee, punti, parole, intere frasi. Procedeva a rilento, tentennava, ma non rimaneva ferma per più di qualche secondo. E allora le suppliche diventavano improperi, insulti, maledizioni. Da un sussurro leggero intervallato di singhiozzi, le sue parole mutarono rapidamente in urla che, come artigli affilati, le graffiavano le orecchie. Cercavano di riempirle la testa e impedirle di andare avanti, ma le lettere si susseguivano una dopo l'altra.

    Sono una strega e questo rende tutto difficile e spaventoso. Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno a papà. Ho paura di scoprire come potrebbe reagire, o come potrebbe reagire la zia Enya. Lei mi odia perché non sono te. Non fa altro che dire quanto tu fossi brava, bella, perfetta, e come invece io sia il tuo esatto opposto. Non so combattere, non sono una brava cacciatrice, non sarò mai d'aiuto per il clan, e non riesce ad accettarlo. Papà, invece, mi guarda ma non vede me, solo il tuo fantasma. Non so come fosse, prima, ma sono certa che da quando sei morta sia diventato l'ombra di se stesso. Ti amava veramente tanto. Mi vuole bene perché ti somiglio, ma non riesce a volermene abbastanza perché ti ho strappata a lui, perché io sono viva e tu no.
    Come puoi intuire, le premesse non sono delle migliori. Se dicessi loro la verità, credo che zia Enya vorrebbe accendere personalmente la mia pira. Papà non lo so, e mi va bene così. Non voglio davvero saperlo. Non sono una persona così coraggiosa, mi dispiace. Forse anche tu saresti stata delusa di avere una figlia come me. Però, lascia che ti dica che è orribile avere paura delle persone che dovrebbero amarti. E lo è anche mentire loro giorno dopo giorno.
    Mi chiedo se fosse così anche per te. Valerie – la strega che mi sta aiutando – mi ha detto che spesso la magia si tramanda di madre in figlia. Forse anche tu lo eri e sei diventata una brava cacciatrice per dissimularlo. Mentivi a tutti, come faccio io? O qualcuno lo sapeva? Nessuno mi ha raccontato mai nulla di te. Dicono soltanto che eri brillante, capace, semplicemente perfetta – e quanto io sia il tuo opposto. Parlare di te in termini diversi sembra quasi un tabù. Credo che la tua perdita abbia lasciato una ferita troppo profonda e che la mia sola presenza non riesca a guarirla. Forse mi odiano, forse no. Ma a loro sembra non importare nulla di ciò che sono, né di ciò che vorrei essere. L'unica cosa che conta è che non sono come loro vogliono che io sia. E, credo, mi vorrebbero tutti a tua immagine e somiglianza. Non mento quando dico che mi dispiace deludere le loro aspettative. Mi dispiace deludere anche te. Ma prima o poi dovrete accettarlo: non sono quella che vorreste. Non lo sarò mai.
    E poi, cosa c'è di sbagliato nell'essere una strega? Si nasce così, non c'è una scelta, né la possibilità di cambiare o smettere. È qualcosa che ti accompagna ad ogni passo, permea ogni respiro, vive con te e ti fa crescere. Perché condannarci?
    Sono stanca, mamma. Di nascondermi, di fuggire e di mentire. Sono stanca e non so per quanto tempo riuscirò a reggere questa situazione. Ma sai cosa ti dico? A me la magia piace. Non so ancora controllarla, ma mi piace. Ci sono infinite cose da imparare e da scoprire ed è tutto così meraviglioso che l'operato dell'Inquisizione e dei clan di cacciatori come il nostro mi sembra sempre più dettato da superstizione e pregiudizi.
    La verità è che ho paura. Non voglio vivere col continuo timore di essere scoperta. Non voglio morire per qualcosa che amo e che non dipende da me. Non voglio scoprire cosa potrei fare, se messa alle spalle al muro, per salvami.

    Due leggeri colpi alla porta la spinsero ad alzare la testa dal foglio. Si rese conto solo in quel momento di avere gli occhi stanchi e che, oltre il vetro delle finestre, il sole stava cominciando a calare. Appoggiò la penna sul tavolo e si massaggiò le palpebre abbassate con pollice e indice mentre si voltava.
    «Tra poco chiudiamo». La testa bionda di Constance fece capolino dalla porta socchiusa. «Ti manca ancora molto?».
    Ailis scosse la testa. «No. Ho quasi fatto. Non vi farò tardare». Vide l'altra alzare gli occhi al cielo, come a dire che non le importava affatto. «Puoi restare qua anche tutta la notte, e lo sai. Per noi non è un problema». Si ritrasse e chiuse la porta, lasciando Ailis con un sorriso appena accennato ad incurvarle le labbra.
    Appoggiate le mani sul bordo del tavolo, spinse la sedia indietro e si alzò. Sentiva le gambe intorpidite e dovette muovere qualche passo incerto lungo la stanza prima di riacquistare una discreta mobilità. Si avvicinò agli scaffali e prese candele e fiammiferi, poi tornò al suo posto. Le fiammelle accese donarono alla carta un colore più caldo e morbido, insieme ad una sensazione di placido benessere. Aprì e chiuse un paio di volte la mano destra. Le chiedeva pietà, un po' di riposo, ma non aveva ancora finito. Mancava poco, ormai.

    Cara mamma, non so nulla di te, ma dopo questa lettera spero tu possa dire di conoscere me un po' meglio. Non so se mi avresti voluto bene, non so se te ne avrei voluto io. Dopo questa lettera che non leggerai mai, mi sembra di vederti per la prima volta come una persona reale, e non come un'entità perfetta e irraggiungibile.
    A questo punto credo di non avere altro da dirti. Spero non sia stato un problema, per te, essere la destinataria di questa lettera. Credo sia arrivato il momento dei saluti. Non so se ti scriverò ancora e di certo tu non mi risponderai mai. Ma sarebbe stato bello.

    Grazie di tutto,

    Ailis


    Mise il tappo alla penna e la ripose nel cassetto insieme all'inchiostro. Non rilesse nemmeno una parola, sapeva cos'aveva scritto, e ripiegò la lettera in tre parti uguali con assoluta precisione. La inserì in una busta di carta, inumidì la parte collosa e la richiuse. Scrisse il proprio nome e quello di sua madre. Mancava il francobollo, ma non credeva ce ne fosse bisogno.
    Le fiamme delle candele danzavano mollemente, la cera colava in piccole gocce che si cristallizzavano a contatto col metallo freddo. Il fuoco lambì la carta non appena l'angolo della busta raggiunse lo stoppino. Lasciò la lettera che bruciò rapidamente, sospesa in aria. Sottili volute di fumo si sollevarono e s'infransero sul soffitto, i pochi resti carbonizzati caddero sul pavimento leggeri come piume.
    Ailis sentì che dei nodi dentro di lei si erano sciolti, che parte della tensione si era allentata, che si sentiva bene. Per la prima volta si mise a piangere senza sentirsi triste.


    Si era svegliata di buon'ora ed era partita di casa in anticipo. Al suo arrivo, Val e Constance stavano ancora facendo colazione e, dopo aver mangiato qualcosa insieme a loro, era scesa nello scantinato. Prese posto sulla sedia, sfilò l'ago dal rocchetto e srotolò una buona porzione di filo. Si mise in posizione, le mani aperte che incombevano sugli oggetti. La magia li avvolse e si sollevarono in aria.
    Tremavano, come colpiti da raffiche di vento che esistevano solo per loro. Ailis chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. Non doveva agitarsi. Non doveva fare le cose di fretta. Non doveva pensare a nient'altro. Sollevò le palpebre. La sottile asta di metallo galleggiava, perfettamente immobile. La guardò incredula e deglutì. Il sottile filo di cotone si mosse nella sua direzione. Una, due, tre volte. Al quarto tentativo scivolò nella cruna. L'estremità si intrecciò su se stessa per formare un nodo.
    «Bene» esordì Valerie a metà scalinata, con Constance in cima che sbocconcellava un panino. «Adesso possiamo andare avanti. La parte noiosa dell'apprendistato è finita».
    Constance aveva ragione. Scrivere non aveva fatto passare la paura. Era ancora lì, vivida e reale come il giorno prima, e come lo sarebbe stata l'indomani, il giorno dopo e quello dopo ancora, ma sentiva di poter convivere con lei senza lasciarsi sopraffare.
    Lanciò un'occhiata alle tracce di cenere lasciate dalla sua lettera e sorrise. «Grazie».



    Ps: una volta ho sentito dire che gli spiriti dei nostri cari defunti ci stanno sempre accanto, e che se ci concentriamo, possiamo sentirli. Io non ho mai provato nulla di simile, quindi... se davvero mi sei vicina e se mi vuoi bene, potresti provare a farti sentire un po' più forte?

  5. .


    «Di niente» fu l'unica risposta del ragazzo mentre le apriva la porta, facendole segno di proseguire. Mosse qualche passo in avanti, varcando finalmente la soglia che li avrebbe condotti fuori dalla biblioteca. Lanciò un'occhiata dietro di sé, combattuta. Da un lato non vedeva l'ora di uscire, dall'altro avrebbe voluto restare lì per sempre, vivere di sola lettura, nutrirsi di tutta quella conoscenza e dissetarsi con l'inchiostro con cui ogni parola era stata scritta o stampata. Chissà se sarebbe stato difficile ottenere l'autorizzazione per accedere al castello. Sperava davvero di no, le sarebbe piaciuto passare del tempo lì o prendere qualche libro in prestito. Ammesso e concesso che, trovato un lavoro, avesse delle ore libere a disposizione. Ammesso e concesso che riuscisse a trovarlo, un lavoro.
    Un gorgogliare vicino attirò la sua attenzione, ma non riuscì a capire da dove provenisse finché non cominciarono a scendere una delle due scalinate che portavano al piano inferiore, tra le quali notò una fontana. La osservò, impressionata, concentrata più su quella che sui gradini che stava percorrendo. «C'è persino una fontana...» commentò. Non si accorse di averlo detto ad alta voce fino a quando non sentì Ingwe ridere sommessamente. «Sembra che il castello ti piaccia, per ora».
    Quel commento la fece imbarazzare più del dovuto. Doveva essergli sembrata molto infantile, oppure una sempliciotta. Purtroppo, era più forte di lei. Non riusciva a restare impassibile di fronte a ciò che la stupiva, alle novità. Considerando poi che si trovava in un mondo nuovo – cosa che ancora stentava a credere – il suo autocontrollo svaniva del tutto. «P-Più che altro sono sorpresa» balbettò, nel tentativo di articolare una giustificazione che non la facesse sembrare del tutto stupida. «È molto diverso da casa mia» concluse, lanciando un'occhiata all'intricato disegno riportato sul pavimento sotto di loro, di quelle che le sembravano essere infinite sfumature di blu. Chissà quanti anni era durata la costruzione di un castello così grande e curato nei minimi particolari. Non c'era un solo dettaglio che fosse fuori posto.
    «Non mi sorprende» disse il ragazzo mentre percorrevano la scalinata. «Anche io quando sono entrato qui per la prima volta mi sono ritrovato a paragonarlo con palazzi e castelli del mio mondo». Bastarono quelle poche parole a suscitare la sua curiosità. «Se posso chiedere, che posto è il mondo da cui vieni?» domandò senza rifletterci troppo, sovrappensiero, mentre lo sguardo si alternava tra quel nuovo ambiente e Ingwe. Si morse la lingua. Si stava rendendo davvero indisponente con tutte quelle domande. Prima Radiant Garden, poi l'attacco, il volo e adesso questo. Doveva imparare a cucirsi la bocca prima che qualcuno lo facesse al posto suo, letteralmente. Per fortuna, il custode non parve disturbato dal suo ennesimo quesito. «Hmm, di sicuro diverso da questo» premetté, probabilmente cercando di individuare qualcosa di particolare da usare per la descrizione. «Non c’è molto da dire, comunque: rispetto ad altri mondi –rispetto a questo mondo- non è molto avanzato tecnologicamente. Si potrebbe dire che non è abbastanza carino a livello naturale, ecco. Ah! Probabilmente la maggiore particolarità è il fatto che le stagioni sono fisse, ma oltre a questo… non c’è molto da dire». Ailis aggrottò la fronte, come se qualcosa l'avesse lasciata perplessa o confusa. «In che senso le stagioni sono fisse?» chiese ancora. «Per farla semplice, nel nord è sempre inverno e più si scende verso sud più il clima si fa caldo, fino ad arrivare all’estremo sud, che in pratica è un solo grande deserto» spiegò mentre portava una mano alla nuca per massaggiarsi il collo. «In ogni caso non è così spettacolare: a Radiant Garden il clima è temperato per la maggior parte dell’anno, come se fosse sempre primavera ed esiste un mondo in cui il sole è sempre fermo all’altezza dell’orizzonte, immobile in un tramonto perenne. Quasi poetico, no?».
    «Oh!» esclamò, capendo finalmente cosa intendesse. Le sarebbe piaciuto vedere un mondo in cui c'era un crepuscolo eterno, il tempo sospeso in un attimo infinito per chissà quale capriccio della natura. «Chissà da cosa dipendono tutte queste differenze» si chiese tra sé e sé, quasi sovrappensiero. «Boh» fu la risposta secca e immediata del ragazzo, che in parte contribuì a smorzare il suo entusiasmo. Non che si aspettasse una risposta compiuta – l'ennesima – però...
    Dopo quell'ultimo scambio di battute, Ingwe era rimasto in silenzio per un po', pensando a chissà cosa. Non era brava a leggere le persone, non sarebbe stata in grado di capirlo. Percorse i pochi gradini che la separavano dal pianterreno e, all'ultimo, vide il ragazzo voltarsi in sua direzione. «Il tuo mondo, invece? Com’è?».
    Abbassò lo sguardo per un istante nel tentativo di riordinare le idee. Non che ci fosse molto da dire, in realtà, almeno a livello di clima e ambiente. «Abbiamo inverni molto lunghi e rigidi. Ci ritroviamo sommersi da metri di neve e ghiaccio dal giorno alla notte» cominciò. «Però l'estate è piuttosto calda e in quei mesi le pianure si tingono di un verde talmente intenso che, dopo tutto quel bianco, sembra irreale». Hibernia era bella, indiscutibilmente. Al di là dei suoi pericoli, era capace di fornire, in ogni momento dell'anno, paesaggi talmente belli da mozzare il fiato. Nei mesi più freddi l'acqua delle cascate si congelava e andava a formare decine di stalattiti, alcune finivano per fondersi alle altre fino a formare quello che, da lontano, sembrava essere uno spesso telo, come quelli che si calano a teatro tra un atto e un altro. Se si aguzzava la vista, sui vetri delle finestre si potevano vedere piccoli cristalli di ghiaccio che si facevano strada pian piano sulla superficie fredda. E poi il bianco, quel bianco così puro e limpido da ferire gli occhi con la sua bellezza. Hibernia era una distesa bianca e soffice per quasi tutto l'anno, e l'amava. Nei mesi estivi, poi, non era meno bella. Quando le temperature cominciavano a scaldarsi, la natura sembrava rifiorire, come se il gelo non l'avesse mai toccata e le pianure che circondavano la città si tingevano di mille tonalità di verde e di quelle più variopinte dei fiori che si facevano strada nel terreno ancora freddo.
    «Sembra molto bello...» commentò il ragazzo con un sorriso.
    «Lo è» confermò immediatamente, «ma è anche molto difficile. Le temperature si fanno molto rigide, anche un semplice raffreddore può portare alla morte. Molti bambini e persone anziane non riescono a sopravvivere» disse, perdendo qualunque traccia di allegria. La bellezza del suo mondo era controbilanciata dalla pericolosità dell'ambiente. Certo, ormai la popolazione era ben preparata. Si facevano scorte di medicinali prima dell'inverno, e anche di legna, cibo e tutto il necessario per la sopravvivenza, ma non sempre era sufficiente. «Capito» si limitò a dire l'altro. Calò nuovamente il silenzio e Ailis intuì di aver parlato troppo, di nuovo. «Ho... ho detto qualcosa di sbagliato?» domandò in un balbettio, pronta a scusarsi. In effetti non è che avesse parlato di cose allegre e piacevoli. Forse aveva esagerato.
    «Io...» vide Ingwe scuotere la testa e poi sorridere. «No, tranquilla». Ailis distolse lo sguardo mentre scendeva gli ultimi gradini, sperando che fosse davvero così, ma senza crederci davvero. Raggiunsero il portone senza dire più nulla, sperando che l'ambiente successivo sarebbe stato all'esterno. «Piuttosto», iniziò il ragazzo, catturando la sua attenzione. «come mai sei qui? Nel senso, non qui-qui, ma come mai hai deciso di andare in un altro mondo?».
    Trattenne il respiro per un istante, sentendo una morsa allo stomaco. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto rispondere a quella domanda. Non voleva mentire, ma non voleva nemmeno dire la verità. Aveva troppa paura delle conseguenze e anche solo ripensarci faceva troppo male. Inspirò a fondo per mantenere la calma. Andare nel pallone non sarebbe servito a nulla. «Hibernia non è un bel posto in cui vivere per...» tentennò un solo istante. «per quelli come noi. Praticare la magia è un reato punibile con la morte e i processi sono solo una farsa. Le streghe, o anche solo donne normali accusate di essere tali, vengono impiccate o messe al rogo, a volte annegate. Non volevo fare quella fine».
    «Oh» fece. Era difficile trovare qualcosa da dire in simili circostanze. «Mi dispiace». In risposta, Ailis scrollò le spalle, come a dire che era una cosa che avrebbe superato, prima o poi. Quantomeno, adesso Ingwe avrebbe capito perché si era comportata in modo così inusuale all'inizio, quando aveva paura anche solo di pensare la parola 'magia'. «Capisco bene la tua situazione». La ragazza lo guardò, stavolta era lei quella stupita. Aveva ipotizzato che nel mondo di Ingwe la magia fosse permessa, ma con quella premessa, era evidente che si fosse sbagliata. «Anche nel mio mondo la magia non è vista in una luce prettamente positiva e coloro che la utilizzano vengono braccati. Però…» Ingwe si interruppe per un momento e Ailis non poté non capirlo. Era difficile parlarne. «Qui è diverso. In questo mondo coloro che utilizzano la magia non vengono discriminati, anzi, molti oggetti e strumenti di utilizzo quotidiano funzionano grazie ad essa. Ma non è solo qui: anche in mondi nelle vicinanze essere maghi e studiare la magia non è in alcun modo problematico o visto come qualcosa di negativo».
    Ancor più di prima, Ailis si considerò incredibilmente fortunata. Tra tutti i mondi possibili, era capitata proprio lì, a Radiant Garden, dove la magia veniva utilizzata liberamente e nessuno avrebbe potuto accusarla e farle del male. «Non augurerei a nessuno di trovarsi in una situazione simile» mormorò. La paura e quelle sensazioni erano ancora troppo vicine e vivide perché potesse riuscire a parlarne senza lasciarsi sommergere da quelle emozioni. «Mi dispiace che sia capitato anche a te» disse, sincera. Ingwe era stato gentile e cordiale con lei, ma non le era passata di mente che avesse trascorso brutte esperienze, al suo pari. Era stato molto sciocco, da parte sua, e se ne vergognava.
    Lo vide sorridere e scuotere la testa, come per liquidare il tutto con un 'niente di che'. «Tranquilla, non sono mai stato scoperto, quindi la mia vita è stata abbastanza tranquilla sotto quel fronte». Avrebbe voluto dire che non essere scoperti non significava necessariamente vivere una vita serena, perché la paura di farsi scoprire, il costante doversi guardar le spalle, il sospetto che qualcuno potesse aver notato le sue stranezze, il timore di un futuro quanto mai incerto, erano tutti fattori che contribuivano a rovinare un'esistenza, non a renderla piacevole. Ma non lo fece, non pronunciando nemmeno una parola al riguardo. Avrebbe preferito non scendere nello specifico più di così. Non c'era nulla di piacevole da raccontare o ricordare. Era solo doloroso e se n'era andata proprio perché non riusciva a sopportare tutta quella sofferenza. «Meno male» disse, senza aggiungere nient'altro. Era tentata di chiedergli cos'avesse spinto lui a lasciare il suo mondo, ma non osò. Le premesse non erano delle migliori, e non voleva scatenare in lui altri ricordi spiacevoli. Se per lui la paura di essere scoperto era poca cosa, non osava immaginare le motivazioni che lo avevano portato fino a Radiant Garden. «Già» fu l'unico commento del ragazzo mentre apriva la porta che conduceva ad un nuovo ambiente. Anche questa volta la fece passare per prima e lei l'aspettò subito dopo aver varcato la soglia, guardandosi attorno. Non riusciva a credere che esistesse un edificio così grande, tant'è che cominciava a chiedersi se mai ne avrebbe visto l'uscita. Di certo, non sarebbe stata mai in grado di trovarla da sola e provò ancora una volta molta gratitudine nei confronti di Ingwe che la stava accompagnando. «Qui dentro potrebbe benissimo viverci tutta la popolazione della mia città, e staremmo piuttosto larghi» commentò.
    «Probabile» disse Ingwe, accompagnando quell'unica parola con una leggera risata. Doveva trovare molto buffi il suo stupore e le sue osservazioni e quel pensiero la spinse a incassare la testa nelle spalle, imbarazzata. «In fondo, in caso di guerra o assedio il castello dovrebbe riuscire a contenere l’intera popolazione di Radiant Garden». Ecco spiegato il perché di quelle stanze immense. In effetti era logico. Se non c'era una famiglia reale o una corte da ospitare, l'unica utilità di un castello era di fungere da fortezza, ultimo baluardo di quella cittadina. «Ovviamente, tutti sperano di non arrivare mai al punto di dover abbandonare la città» aggiunse. «In ogni caso, non c’è di che preoccuparsi: la città è ben difesa sia dal comitato di sicurezza che dal sistema di sicurezza» proseguì, con un tono più incoraggiante, quasi volesse assicurarla che sì, Radiant Garden aveva subito un attacco, ma che era ben protetto e avrebbe resistito a qualunque cosa cercasse si colpirlo.
    Peccato che la ragazza non avesse la benché minima idea di cosa Ingwe stesse parlando. «Sistema di sicurezza?» ripeté piano quelle parole, con un'intonazione che lasciava intendere la sua ignoranza sull'argomento.
    «Sì, il Claymore» disse, quasi come se quel nome si spiegasse da solo. Lo vide picchiettarsi lo zigomo con l'indice, forse in un ennesimo tentativo di spiegarle in modo semplice qualcosa di complicato. «Non so di preciso come funzioni, ma aiuta a mantenere gli Heartless fuori dalla città e a proteggere le vie. In teoria dovrebbe reagire all’Oscurità presente nel cuore di un persona o degli Heartless, ma non so dire molto altro, scusa» concluse.
    «Oh!» fece, senza però riuscire ad immaginare in cosa potesse consistere materialmente, né come potesse funzionare. Era qualcosa di troppo astratto di lei, qualcosa che apparteneva a quel mondo nuovo e che non era in grado di capire, almeno per il momento. Qualcos'altro all'interno del discorso attirò la sua attenzione. «Cosa intendi con l'Oscurità nel cuore delle persone?».
    «Ah, vero» fece il ragazzo. Forse era convinto di averle già spiegato il concetto, o aveva dato per scontato che sapesse o che l'avesse capito. Assunse un'espressione più seria e grave, come quella che aveva mentre gli aveva raccontato, poco prima, dell'attacco alla città. «Ti ricordi prima, quando ti ho parlato degli Heartless? Un Heartless in poche parole è la manifestazione fisica dell’Oscurità che risiede in una persona. L’Oscurità, invece…», rallentò, cominciando a parlare più lentamente. «L’universo come lo conosciamo potremmo dividerlo in tre parti: la prima, quella in cui si trovano quasi tutti i mondi è quello che viene detto il Regno della Luce, la seconda, quella da cui nascono gli Heartless è il Regno dell’Oscurità; la terza, infine, è il Regno di Mezzo, una striscia di universo che si trova sul confine tra gli altri due Regni. Undici anni fa... a causa di alcuni eventi, gli Heartless si sono fatti strada nel Regno della Luce; è da allora che minacciano l’universo e i mondi». Ingwe sospirò. Doveva essere una spiegazione molto più lunga e complicata di quanto Ailis immaginasse. Avrebbe dovuto trovare il modo di sdebitarsi con lui per tutte quelle informazioni che si rivelavano man mano sempre più vitali per la sopravvivenza fuori dal suo mondo. «L’Oscurità è una delle due forze che si contendono il dominio dell’universo. Per farla breve, è come un fenomeno fisico, quasi, una forma di energia. Si potrebbe anche dire che, allo stesso tempo, è dotata di una volontà, esattamente come la Luce e, così come la Luce, viene alimentata dalle persone e dai loro sentimenti». Lo vide grattarsi la nuca con fare nervoso, prendendosi qualche secondo. «In sostanza, se la Luce è alimentata da sentimenti comunemente intesi come positivi, allora l’Oscurità è alimentata da quelli che normalmente intendiamo essere negativi. Quando un umano raggiunge un determinato limite, quando non riesce più a controllare questi sentimenti e diventa vittima di essi, si tramuta in Heartless. Tuttavia, non è un assoluto: ogni essere umano prova invidia, odio, rancore, ma non per questo significa che stiano alimentando l’Oscurità o stiano per cadere vittima di essa: tutto deve essere preso in moderazione. Molti sentimenti generalmente considerati positivi, se in eccesso possono portare ad uno squilibrio e possono nutrire l’Oscurità. In ogni caso, è un argomento molto ampio da affrontare: quello che ti ho appena detto sono le basi, forse anche di meno. Non è qualcosa così semplice da spiegare…».
    Ailis annuì, facendo cenno di aver a grandi linee compreso i concetti che Ingwe aveva cercato di spiegarle. Era difficile digerire l'idea che un posto sicuro, davvero sicuro, fosse impossibile da trovare. «È... strano» mormorò, come se stesse parlando tra sé e sé. «Credevo che la cosa più pericolosa davanti alla quale potessi trovarmi fossero gli inquisitori» ammise. Quelle che Ingwe le aveva fornito, su sua richiesta poi, erano forse un po' troppe informazioni tutte assieme, qualcosa l'avrebbe dimenticato o le era sfuggito. A grandi linee, però, era riuscita a cogliere le cose fondamentali. Sentimenti negativi alimentano l'Oscurità, che crea gli Heartless, che sono pericolosi. Si abbandonò a un sospiro, rassegnata. «Nuovo mondo, nuovi pericoli, suppongo».
    Le sue parole suscitarono una reazione apparentemente divertita in Ingwe, che accennò una risata. «Già», concordò. «Nuovi pericoli, ma non solo». Si voltò a guardarlo e notò un certo imbarazzo da parte sua, accentuato dal gesto della mano che si massaggiava la nuca. «Spesso si tratta anche di nuove conoscenze, nuovi amici. A volte persino una nuova vita, se è ciò che uno cerca».
    Si ritrovò, inaspettatamente anche per se stessa, a sorridere. Un accenno, un leggero incurvarsi di labbra. «Lo spero». Di cuore, pensò tra sé e sé. A forza di parlare con Ingwe del più e del meno, cominciava a rilassarsi. Non poteva dire di essersi sciolta del tutto, ancora inquieta all'idea di trovarsi in una realtà diversa da quella da cui proveniva, però sentiva di star migliorando, poco a poco. Nessuno le faceva fretta, nessuno la obbligava a fare niente. Forse, per la prima volta in vita sua, era davvero libera di fare e pensare quello che voleva, senza costrizioni, senza influenze, senza dover scendere a compromessi.
    «Dunque». Mentre Ingwe riaccendeva la discussione, svoltarono in un corridoio costeggiato da ampie vetrate che lasciavano penetrare la luce dall'esterno. «sei una maga, giusto?».
    Tentennò un istante prima di rispondere. Non per timore, quanto per una questione di semplice significato. Strega aveva un'accezione più negativa di maga, ma c'erano ulteriori differenze? «Non ci chiamano così da dove vengo io, ma sì» disse. «E non sai che sollievo sapere che qui la magia non viene demonizzata». Il sollievo traspariva dalle parole e dalla sua espressione, dai movimenti, più rilassati rispetto a prima. Sarebbe andata bene. Doveva andare bene.
    Il suo sguardo cadde al di là delle finestre, oltre il vetro non più colorato che le permetteva di avere il primo, vero scorcio di Radiant Garden. I tetti rossi e color ruggine, i mattoncini chiari della pavimentazione e tanto, tanto verde ovunque. Ingwe l'aveva già rassicurata in proposito, ma vedere con i proprio occhi che non c'era nulla di particolarmente strano o bizzarro le diede la conferma, almeno temporanea, di non aver fatto una sciocchezza. Quello poteva essere il posto giusto per ricominciare. «È... è più simile al mio di quanto immaginassi». Si ritrovò a combattere contro l'istinto di incollarsi al vetro e continuare a guardare, curiosa, cercando di cogliere qualche dettaglio particolare, qualche persona.
    «Spero ti piaccia». Non vide Ingwe sorridere mentre parlava, ma le parve quasi di percepirlo.
    «Sembra davvero bella» mormorò in un soffio, apparentemente incapace di distogliere lo sguardo. Avrebbe potuto ambientarsi, lasciarsi tutto alle spalle. Sì, ce l'avrebbe fatta.
    «Comunque, tornando all'argomento di prima: sei specializzata in qualche branca magica particolare oppure ti destreggi un po' su tutti i campi?» le chiese il ragazzo. Tornare all'argomento di discussione principale riportò la sua mente all'interno delle mura della fortezza e a Ingwe.
    La mano destra andò ad afferrare le dita della sinistra, stringendole, accarezzandole, graffiandole appena. «Dire che sono una specialista sarebbe esagerato, però me la cavo con la manipolazione del ghiaccio. Oh, e come ti ho detto prima, a spostare le cose senza toccarle» spiegò, accompagnando le ultime parole ad un leggero scrollare delle spalle. «È comodo cucire senza pungerti le dita con l'ago o tagliarti con le forbici» aggiunse, pensando a tutte le volte che aveva sporcato la stoffa di sangue, prima di rassegnarsi a usare i ditali e prima ancora di riuscire a farlo con la magia. Si ritrovò automaticamente a pensare al lavoro: chissà se c'era una sartoria che cercava apprendiste, in quel mondo. Le avrebbe fatto piacere continuare a svolgere quell'attività. Si voltò per poterlo guardare in viso, sollevando un po' la testa. «Tu, invece?» si ritrovò a domandare di rimando, interessata. Per lei, scegliere quell'elemento, era stato naturale quasi come respirare. Ci si era trovata subito in sintonia. Il freddo la accarezzava senza ferirla, l'acqua si cristallizzava e poi la plasmava a suo piacimento. C'era un che di meraviglioso nel ghiaccio, nel modo in cui ogni fiocco di neve era diverso dagli altri e comunque perfetto, in cui le temperature rigide trasformavano la pioggia in piccoli batuffoli bianchi che poi ricoprivano ogni cosa, facendole cambiare aspetto come un vestito nuovo e scintillante.
    Ingwe parve leggermente imbarazzato prima di rispondere. Forse la domanda l'aveva messo a disagio, forse non era molto abituato a parlare di magia con qualcuno, o forse nessuna delle due, ma non le veniva altro in mente. «Luce. Sia quella di cui ti ho detto prima, che quella più...», tentennò un istante alla ricerca della parola più giusta per esprimere il concetto, «materiale? Oltre a ciò, me la cavo un po' con la magia non-elementale e, come te, a spostare gli oggetti senza toccarli. Ah, e direi che ho una discreta conoscenza anche di alcuni incantesimi di guarigione. Poi, anche se più di recente, sto tentando di cimentarmi nella manipolazione del fuoco e del vetro». Tacque per qualche istante, perso in pensieri che Ailis non riusciva a decifrare e nemmeno a scorgere. Le sembrava quasi frustrato, infastidito, e subito dopo capì il perché. «Nonostante i risultati lascino abbastanza a desiderare. E poi c'è il volo, come hai visto prima».
    Si ritrovò a guardarlo senza sapere se sentirsi sorpresa, colpita o cos'altro. «Si può alterare qualcosa che non sia un elemento?» gli chiese quando il ragazzo fece riferimento al vetro. «Solo che... come pensi di utilizzarlo? Non è un po' troppo fragile?» chiese. Senti chi parla. si ritrovò a pensare. Alzò gli occhi al cielo. «Anche se può sembrare strano detto da una che usa il ghiaccio. Però quello almeno è freddo».
    A fronte delle difficoltà del ragazzo, le venne spontaneo sorridere mentre alzava una mano chiusa a pugno, fatta eccezione per l'indice che era teso e puntato verso il soffitto. «La mia maestra diceva che la pratica rende perfetti. La mia compagna di studi, che se una cosa non ti riesce è perché non ti stai impegnando abbastanza». Venne colta da un prevedibile e calcolato moto di tristezza non appena diede voce a quei pensieri, ma lo scacciò immediatamente. Voleva riuscire a parlare di loro senza stare male, pensare alle cose belle, a come tutto era iniziato, piuttosto a come si era tragicamente concluso. «In sintesi, devi solo continuare a provare. Mi hai appena dimostrato che quello che credevo impossibile è realtà. Quindi puoi riuscire a destreggiarti con fuoco e vetro». Aveva detto cose sicuramente banali, ma purtroppo non le veniva nient'altro in mente per incoraggiarlo un po'. Forse però, poteva dargli un aiuto un po' più concreto. Quando si parlava di fuoco, la prima persona che le veniva in mente era Valerie – la seconda era Zaher e il ricordo della Giudice e di quello che aveva fatto le causò una fitta al petto - che poteva renderlo un docile gattino così come un mostro infernale. Era abbastanza sicura che ci fosse qualcosa al riguardo scritto di suo pugno nel grimorio. Una mano corse alla borsa, accarezzando delicatamente la copertina del libro prima di fare qualunque altra cosa. Esitò un istante prima di afferrarlo e porgerlo al ragazzo. «La strega che mi ha fatto da insegnante era davvero abile con le fiamme. Magari qui c'è scritto qualcosa che può aiutarti... puoi dargli un'occhiata, se vuoi». Solo mentre tendeva il tomo verso Ingwe si rese conto di quanto sarebbe stato incredibilmente doloroso separarsene, anche solo per pochi istanti. Era tutto quello che le restava della sua vita prima di giungere lì, quella che voleva dimenticare ma alla quale si sentiva ancora legata. Voleva andare avanti ma non riusciva a farlo senza guardarsi indietro.
    «Non è necessario, grazie. Non credo servirebbe». Se da un lato fu un dispiacere l'idea di non poterlo aiutare, dall'altro fu sollevata di poter rimettere il grimorio al suo posto, accanto alla pistola, dentro la borsa. «È un qualcosa che posso e che devo fare da solo». Ebbe la sensazione di vedere qualcosa sul suo viso, come un'ombra, qualcosa che non voleva dirle. Le dispiaceva, ma in fondo lo capiva e non poteva di certo biasimarlo. Qualunque fosse il problema, in ogni caso, sperava riuscisse a risolverlo. «In ogni caso, Il dominio del vetro non è un dominio privo di elemento: immaginalo come se fosse un'unione del fuoco, della terra e della luce». Lo vide imitare il suo gesto di sollevare il dito prima di riprendere la spiegazione. Ailis fece per aprire bocca, le labbra socchiuse, ma ci ripensò immediatamente e tacque prima ancora di prendere la parola. In effetti aveva senso. Le era difficile crederlo, ma aveva decisamente senso. Accidenti, quanto lo invidiava. Voleva diventare anche lei così capace. Doveva assolutamente riprendere gli studi, era un imperativo categorico. «Pensato così non sembra più tanto fragile, no? Certo, la struttura molecolare del vetro in sé non è molto solida, ma se la rafforzi utilizzando la magia, potrebbe diventare un materiale più resistente di molti metalli. Per non parlare, essendo il vetro collegato al fuoco, alla possibilità di utilizzarlo anche in stato liquido, riscaldandolo oltre la temperatura di fusione». Nel ricordare l'ustione che aveva subito quando era stata esaminata e pensando a quanto il ghiaccio fuso a contatto con la carne potesse essere doloroso, fu scossa da un forte brivido che la costrinse, per un istante, a stringere gli occhi. Sperava di non doverlo mai provare sulla pelle.
    «In effetti non l'avevo mai visto in quest'ottica» confessò, senza riuscire a celare quanto fosse colpita. Era quasi imbarazzante capire quanto la sua visione della magia, fino a quel momento, fosse stata limitata. Oh, ma aveva tutta l'intenzione di rimediare. I suoi pensieri corsero al libro che aveva in borsa. Forse qualche pagina avrebbe potuto scriverla lei: chissà quanti e quali altri materiali potevano essere gestiti allo stesso modo.
    «Ho un'arma, una spada, che funziona in maniera simile a come ho in mente il dominio del vetro».
    «Bé, hai già un'idea precisa dalla quale partire». Era molto più di quanto lei avesse avuto all'inizio, quando i suoi poteri avevano cominciato a manifestarsi e non sapeva come controllarsi. Era stato un brutto periodo della sua vita, uno dei peggiori.
    Trattenne uno sbuffò divertito quando Ingwe annuì, con una soddisfazione tale che persino lei riuscì a leggerla nel suo sguardo. «Più che altro è semplicemente che l'ho già visto in azione. Tutto quello che ho detto prima riguardo fuoco, terra e luce è solo speculazione da parte mia. Può anche essere che sia possibile manipolare direttamente il vetro senza dover prima imparare a controllare gli altri tre elementi. Posso solo continuare provare. So di potercela fare, ne sono sicuro. Devo solo capire come».
    «Però non è un ragionamento così scontato. Se si rivelasse corretto potrebbe essere la chiave per riuscire a sfruttare il vetro. Però posso capire la difficoltà, sarebbe come utilizzare tre elementi contemporaneamente» rifletté, stirando le labbra. Riusciva solo ad immaginare quanto potesse essere complicato. A quel che le aveva detto riguardo alle sue capacità, Ingwe doveva essere un mago di talento, ma forse quello era troppo anche per lui. Anzi, no: il ragazzo aveva fatto cose che per lei erano impossibili. Manipolare il vetro non era impossibile, solo complicato.
    «Già. Probabilmente quasi troppo difficile. Una soluzione potrebbe essere manipolare il vetro senza crearlo, quindi partendo da quello già presente nelle vicinanze. Solo che... L'ho già visto venire utilizzato, venire creato dal nulla. È diventata quasi una questione di principio».
    Ah, come lo capiva. Le era capitato spesso di intestardirsi su una particolare formula o incantesimo che non riusciva a eseguire. Poteva anche essere la magia più banale e inutile del mondo, ma doveva impararla. E poi a volte bastava prendersi una paura, o affrontare tutto con un diverso approccio. «Potresti sempre iniziare a manipolare il vetro già esistente e, una volta acquisita una certa scioltezza, potresti provare a crearlo. Nessuno ti obbliga a partire dalle cose più difficili. Forse hai bisogno di... abituarti al vetro, per così dire» tentò. Non sapeva quanto le sue parole potessero essere veritiere o utili, ma voleva almeno provare a dargli una mano, come Ingwe stava facendo con lei da quando l'aveva vista uscire da quella porta della biblioteca.
    Ingwe parve dubbioso, ma annuì. «Non so. Tentar non nuoce, comunque». Calò il silenzio e, intuendo che il ragazzo stesse macchinando qualcosa, non osò interromperlo né disturbarlo. Non durò comunque a lungo, perché parve ricordarsi di lei e subito tornò a parlarle. «Per quanto riguarda te, invece?» domandò. «Hai voglia di studiare qualche nuovo elemento o branca della magia?».
    La domanda la colse un po' impreparata. L'idea era davvero allettante e la discussione con il ragazzo non aveva fatto altro che alimentarla, tuttavia dubitava di essere pronta a compiere un simile passo e non aveva mai preso realmente in considerazione quell'eventualità. «N-Non saprei» balbettò. «Credo che la mia manipolazione del ghiaccio sia lontana dall'essere eccellente, quindi non ho mai pensato ad ampliare gli studi ad altre branche. P-Però mi piacerebbe, sì» ammise, timidamente. Si sentiva una maga davvero mediocre in confronto a lui.
    «Capisco. Non conosco le tue capacità riguardo il dominio del ghiaccio, ma se davvero sai trasportarti di mondo in mondo tramite la magia dubito che avrai qualche problema a perfezionare la manipolazione dell'elemento» disse il ragazzo con un sorriso. Si ritrovò ad arrossire e abbassò lo sguardo, mentre con la sinistra si massaggiava una guancia. «Non è una formula così complicata, in realtà» farfugliò, imbarazzata.



    sarà sicuramente pieno di errori, confido di correggerli quando sarò più capace di intendere e volere çwç
  6. .


    Erano trascorsi appena un paio di giorni dal suo arrivo a Radiant Garden e non poteva ancora dire di essersi ambientata. Doveva ammettere che non c'erano poi così tante differenze col suo mondo d'origine, fatta eccezione per strani macchinari che vedeva qua e là nei negozi e per strada e di cui per lo più non capiva il funzionamento, ma allo stesso tempo ne aveva notate un'infinità: modi di fare e di relazionarsi, concezioni, atteggiamenti, pregiudizi. Era in pieno shock culturale, ma andava bene così. Probabilmente era la cosa migliore che potesse capitarle.
    Orientarsi, poi, le risultava ancora difficile. La città aveva una struttura molto diversa da quella cui era abituata e nulla, nella sua ottica, sembrava essere al posto giusto. Ogni volta che si metteva a gironzolare per memorizzare qualche strada, qualche edificio o per cercare un lavoro, finiva irrimediabilmente col perdersi. Per fortuna i cittadini di Radiant Garden si erano sempre dimostrati gentili e l'avevano aiutata con informazioni chiare e semplici, a volte offrendosi addirittura di accompagnarla alla locanda. Anche da quel punto di vista era stata fortunata: nonostante i danni riportati da quel mondo in seguito a un attacco di Heartless era riuscita a trovare alloggio in una graziosa pensione che dava proprio sulla piazza principale e la proprietaria aveva accettato di farle uno sconticino sul costo della camera in cambio di un po' di aiuto.
    In quel momento, infatti, si stava occupando di spazzare l'ingresso. Armata di scopa e buona volontà aveva iniziato a raccogliere la polvere che, dopo poche passate, aveva già formato una montagnola consistente. Se non avesse compiuto la stessa identica operazione anche il giorno prima, avrebbe giurato che nessuno lo faceva da settimane. Il problema erano le macerie non molto distanti e il pulviscolo che il vento portava con sé e che si insinuava in ogni minuscola fessura per poi ammassarsi su qualunque superficie a disposizione.
    Espirò dal naso in uno sbuffo mentre apriva la porta che dava sulla piazza per favorire il ricambio d'aria, anche se questo avrebbe sicuramente significato altra polvere di cui doversi liberare. Avrebbe potuto anche ricorrere alla magia e risparmiarsi la fatica, ma in fondo non aveva niente di meglio da fare. Sbrigare faccende domestiche era sempre meglio che fissare il soffitto con espressione vacua nella speranza che qualcuno avesse bisogno di una sarta apprendista. O di una strega – ma a quanto pare la magia era di dominio pubblico in quel mondo, quindi confidava più nella prima opzione.
    Fu quasi per caso che notò quella strana creaturina nera. Quel colore così cupo e denso spiccava in mezzo a quelli più vari e brillanti dei fiori nelle aiuole e quelli chiari della pavimentazione. Rimase a fissarlo per istanti che le parvero interminabili mentre il suo cervello elaborava quello che gli occhi vedevano. Un essere piccolo e bizzarro di colore nero. Un essere piccolo e bizzarro di colore nero. Un essere piccolo e bizzarro di colore nero. Un essere...
    Sbiancò non appena si rese conto che si trattava di un Heartless. Non ne aveva mai visto uno di persona, ma la descrizione corrispondeva perfettamente. Trattenne il respiro, temendo che con un rumore di troppo avrebbe potuto farsi scoprire.
    Cosa faccio, cosa faccio, cosa faccio? si chiese ripetutamente mentre le sue gambe parevano rifiutarsi di muoversi, né per nascondersi o fuggire, né per avanzare. Non c'era nemmeno nessuno a cui potesse chiedere aiuto. Non un componente del Comitato di Sicurezza che fosse di ronda lì, non un'anima che potesse dirle cosa fare. Nel suo grimorio c'era scritto di scappare a gambe levate, ma le avevano detto invece che, se se ne aveva la possibilità, bisognava eliminare quei cosi a vista. Solo che aveva lasciato la sua pistola in camera. Se fosse andata a prenderla forse l'Heartless si sarebbe allontanato e avrebbe attaccato qualcuno nelle vicinanze, oppure si sarebbe accorto di lei e l'avrebbe colta alle spalle e... e cosa accidenti poteva fare, lei?
    Cercò di prendere coraggio mentre muoveva qualche passo lento verso la creatura, tenendosi accuratamente fuori dal suo campo visivo. Era una pessima idea, pessima. Giunta a un paio di metri da lui strinse le dita attorno al bastone della scopa mentre lo sollevava sopra la spalla destra, pronta a colpire.
    «F-Fermo lì!» esclamò. Va bene, urlare e farsi notare non era stata esattamente la più geniale delle pensate. Normalmente non era così stupida. Perché perdeva sempre il cervello quando aveva paura? «Non provare a muoverti o ti... o ti rompo la testa!» proseguì.
    Certo che non doveva incutere molto timore, piccola e minuta com'era, col viso bianco per la paura, le mani che le tremavano e facevano oscillare la scopa, e la voce che balbettava ogni due-tre parole.


    Io già piango rido.
    Scemenze a parte, non sono molto capace di intendere e volere quindi non ho idea di cosa possa aver scritto. Se becco degli errori in seguito, provvederò a correggerli ç_ç'
  7. .


    Non doveva andare così.
    Ailis si aspettava di distrarla, di coglierla di sorpresa, di costruirsi una finestra di opportunità, qualunque cosa. Qualunque cosa tranne quella. Il vapore non era stato sufficiente a celare quell'espressione ferita, il gesto di asciugare gli occhi da lacrime non ancora versate. Le si mozzò il fiato e il braccio sinistro ricadde mollemente lungo il fianco, quasi inanimato. Sentì una fitta al cuore nel vedere Zaher così, ed era una sensazione provata in tempi troppo recenti, era troppo familiare per non poterla riconoscere. Aveva parlato di suo marito in maniera così allegra e spensierata, prima, che non aveva immaginato potesse reagire in quel modo. Non voleva nulla di tutto quello. Non voleva ferirla così.
    Il labbro inferiore tremava mentre cercava di articolare delle parole. Il suo cervello però non dava segno di vita, non riusciva a formulare un solo pensiero coerente, nulla con cui potesse farsi perdonare.
    «Basta così». Ogni ferita sul corpo della ragazza scomparve, ogni macchia. Ailis sentì quasi le ginocchia cedere. Fin dall'inizio non aveva mai avuto la benché minima possibilità. Era stata messa alla prova, ma nessuno aveva mai detto che avrebbe dovuto vincere, che sarebbe sopravvissuta anche in caso di sconfitta. Aveva ferito l'unica persona che era stata gentile con lei dalla morte di Val e lo aveva fatto per niente. Per niente. Aveva solo dimostrato di essere una stupida. «Ho visto abbastanza, Ailis».
    Man mano che l'adrenalina scemava, ogni colpo, ogni ferita si faceva sentire sempre di più sul suo corpo provato. Lasciò cadere la pistola a terra, le dita non avevano più la forza di tenerla stretta e ben salda, e ormai non le serviva più. La lama di ghiaccio si incrinò e cadde in una miriade di frammenti che, a contatto con il calore del terreno sottostante, si sciolsero nel giro di pochi secondi. Se prima si era trovata in difficoltà, in quel momento le sembrava di non essere altro che un ammasso informe di dolore e stanchezza.
    «Sei promossa». Il tono asettico con cui Zaher aveva pronunciato quelle sole due parole le fece più male di ogni ferita fisica. «Congratulazioni».
    Rimase completamente immobile. No, l'unico pensiero coerente che fu in grado di elaborare. Non se ne sarebbe andata, non così. Non dopo aver rovinato tutto per l'ennesima volta. Mosse il primo passo e rischiò di cadere perché il ginocchio aveva minacciato di non sorreggerla e farla finire a terra. Le ci volle qualche secondo per riprendersi. «Mi dispiace...» riuscì ad articolare. La testa le girava al punto da darle la nausea. Cercò come possibile di ignorare la sensazione di malessere e di avanzare. Erano così vicine, mancava pochissimo. Un solo passo. Un altro ancora. «Mi dispiace» disse ancora, stavolta con voce strozzata.
    Quando le arrivò di fronte teneva il viso abbassato, non aveva il coraggio di guardarla negli occhi. Però doveva farlo. Almeno quello, prima di andarsene. La sola idea la spaventò. Zaher doveva odiarla e non voleva dover rivedere quell'espressione ferita. Il suo respiro accelerò, inspirava ed espirava a ogni secondo. Sentì le lacrime rigarle le guance e si ritrovò a chiedersi quanto potesse diventare patetica, ridicola, quanto in basso potesse arrivare. Forse era quella la sua punizione: quando pensava di aver toccato il fondo, il terreno franava sotto di lei e scopriva di poter scendere ancora e ancora, sempre più in basso. Strinse gli occhi e si diede un leggero slancio verso Zaher, stringendola in un abbraccio che l'altra probabilmente avrebbe respinto, ma che sentiva il bisogno di darle. Anche se le scuse non sarebbero servite, anche se non avrebbe cancellato quello che aveva fatto, voleva almeno che... voleva che cosa? Il perdono?
    Dio, quant'era meschina. Era così pronta a ferire gli altri per proteggere se stessa. E per cosa, poi? Non sarebbe mai riuscita a vivere serenamente, non avrebbe mai potuto essere felice – non col fantasma di Valerie a tormentarla, con il dolore negli occhi di Zaher marchiato a fuoco nella mente.
    «Mi dispiace» lo disse ancora e le parve di non essere capace di dire altro. Strinse Zaher incurante del dolore al braccio e al ventre che la supplicavano di staccarsi, incurante dei possibili tentativi dell'altra di allontanarla. «Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace» continuò a pronunciare quelle uniche due parole, sempre più forte e in modo sempre più sconnesso, la voce che si arrochiva e i singhiozzi che la interrompevano.
    «Mi dispia--». Le gambe cedettero. Se ne accorse in tempo per sciogliere la sua stretta ed evitare che anche Zaher cadesse insieme a lei. Trattenne un lamento quando le sue ginocchia di scontrarono col terreno e la mano destra, istintivamente, andò a sorreggerla, causandole un'altra scarica di dolore si propagò dal braccio al resto del corpo. La vista era offuscata dalle lacrime, dalla stanchezza, dalla sua coscienza che rapidamente si stava assopendo.
    Solo un attimo, un attimo ancora. Strinse i denti mentre costringeva il braccio destro a sollevarsi fino al petto, imitando il gesto che Zaher aveva compiuto quando si era presentata. Non sapeva se fosse consono o meno, ma che aveva da perdere ormai? Voleva almeno fare un ultimo, disperato tentativo di farle capire che non voleva ferirla intenzionalmente. Non così. Non così tanto. Chinò il busto in avanti, alcune ciocche di capelli le solleticarono in maniera fastidiosa le guance e rimasero incollate alla pelle bagnata di lacrime. «Anche per me è stato un onore conoscerla, signorina Zaher» mormorò. Strinse le palpebre mentre sollevava la testa, sforzandosi di guardare in alto, verso gli occhi della giovane Giudice. Era stanca di sbagliare, stanca di scappare, stanca di fare del male a persone che non se lo meritavano.
    Basta..
    Deglutì. «Grazie di tutto» mormorò. Poi fu tutto nero. Non sentì nemmeno il proprio corpo accasciarsi al suolo, tra l'erba e i fiori che una persona gentile aveva creato per lei, prima di scoprire che ingrata fosse.
    Questo è stato il mio ultimo sbaglio. Lo promise a Zaher, ma soprattutto a se stessa. Non si sarebbe più ripetuto. Mai più.



    ZAHEEEEEEEEEEER ç_____ç
  8. .


    Ancora una volta le fiamme schermarono Zaher dal suo attacco. Si sarebbe sentita profondamente frustrata se il bruciore insopportabile al braccio destro non avesse occupato ogni suo pensiero. Non riusciva a ragionare. Il dolore le faceva perdere lucidità, la stanchezza le rendeva il corpo pesante e le gambe faticavano a sorreggerla. Prendeva respiri profondi, ma la carne continuava a pulsare, a far male a ogni movimento.
    Non aveva idee, era bloccata. Si trovava in una situazione senza via d'uscita: le energie che le erano rimaste erano poche, troppo poche per riuscire a fare qualcosa di concreto. Sapeva fin dall'inizio che sarebbe finita così. Non aveva idea di cosa Zaher si aspettasse da lei, probabilmente non quello. Non di vederla lì in quello stato vergognoso, con un braccio quasi inutilizzabile, difficoltà anche solo nello stare in piedi, il respiro affrettato. Ailis l'aveva detto di non essere quella che la Giudice credeva. Quando combatteva i suoi movimenti, le sue scelte, erano più dettati dall'istinto che da un'attenta strategia. Lottava non come una persona che desiderava vincere, non come un guerriero, ma come qualcuno che voleva disperatamente sopravvivere, aggrappandosi alla vita con le unghie e con i denti, fino a vedere le prime spezzarsi, i secondi rompersi e cadere.
    Il leggero crepitio della magia di Zaher preannunciò di pochi istanti l'attacco. Indietreggiò di un passo, incerta sulle gambe, in un impacciato tentativo di schivarlo, ma non fu abbastanza rapida. Dalla gemma incastonata nello scettro fuoriuscì un raggio vermiglio che la colpì al ventre. Alcuni rivoli di sangue sgorgarono dalla ferita; in parte vennero assorbiti dalla stoffa dei vestiti che subito si tinse di rosso, in parte colarono verso il basso, scivolando sulla pelle altrimenti candida. Chinò il busto in avanti nell'incassare il colpo, la mano ustionata corse istintivamente verso quel punto, causandosi da sola ulteriore dolore. Trattenne a stento un'imprecazione mentre si dava dell'idiota, arrabbiata più con se stessa per quel gesto stupido che per non essere riuscita a evitare l'attacco.
    Fu più rapida nel prepararsi alla seconda offensiva. A partire dalla punta delle dita della mano destra andò a formarsi una daga di ghiaccio. Spostò leggermente l'arto di una decina di centimetri verso l'esterno, in modo che la lama si ponesse di piatto a sua protezione. Lo sforzo e il dolore le mozzarono il fiato, strinse i denti così forte che temette di scheggiarseli. Portò il dorso della mancina, stretta ancora attorno alla pistola, a contatto col ghiaccio per dare maggiore stabilità all'arma e a se stessa mentre si difendeva. L'impatto sbilanciò il suo corpo indebolito e la costrinse ad arretrare, aumentando di circa mezzo metro la ridotta distanza tra di loro. Non appena notò le fiamme, richiamò la magia. Una spessa lastra di ghiaccio la schermò dall'attacco. Il fuoco sciolse il ghiaccio e l'acqua sfrigolò, dando vita ad ampie voluta di vapore. Davanti ai suoi occhi vide tante macchie nere a ostacolarle la vista. Non era abituata ad usare tutti quegli incantesimi in tempi così ristretti e senza poter fare una pausa, il suo corpo non riusciva a reggere uno sforzo simile.
    L'unica possibilità che aveva era di coglierla di nuovo di sorpresa, distrarla, in qualunque modo. Doveva pensare in fretta. Non si azzardava a muovere ancora il braccio destro, nonostante la spada. Era pronta a giurare che sarebbe svenuta se lo avesse fatto ancora. Era tutta colpa di quelle fiamme che Zaher si continuava a usare. Tutto quel calore, il bruciore, stavano diventando insopportabili.
    Sentì un groppo alla gola mentre le veniva un'idea in mente. Quel luogo era un'illusione, la ragazza non aveva un corpo reale, aveva parlato di un marito al passato, un marito molto capace ai fornelli. Deglutì a fatica mentre già si pentiva di quello che stava per fare.
    «Usi sempre il fuoco perché ti ricorda tuo marito?». Pronunciò quelle parole in un sussurro, come se non volesse davvero essere sentita, ma la distanza tra di loro era di poco più di un metro, era improbabile che non riuscisse a cogliere quella insinuazione. Sperava di essere riuscita a distrarla anche solo per un istante, almeno essersi comportata in modo così scorretto sarebbe valso a qualcosa. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Si sentiva talmente in colpa per aver davvero avuto la faccia tosta di pronunciare quelle parole che sentiva le lacrime pizzicarle gli occhi. Però non poteva sprecare l'occasione. Sollevò il braccio sinistro contro di lei e sparò puntando di nuovo al petto. La vista era ancora costellata di macchioline nere, la mano le tremava e la pistola non le era mai sembrata così pesante, ma contava che la vicinanza le impedisse di mancare il bersaglio. Se non fosse riuscita a ferirla nemmeno quella volta, sarebbe stata davvero la fine.


    Cor. 30 - Ess. 75 - Men. 40 - Con. 50 - Vel. 45 - Dest. 60


    Status fisico - danno alto da ustione al braccio destro, danno basso alla gamba destra, danno basso al ventre, molto debilitata dal consumo di magia e dalle ferite
    Status mentale - agitata, affaticata, si sente in colpa per quell'uscita molto infelice
    Energia - 57 - 16 (geler) - 8 (lame) + 5 = 27%
    Riassunto - M E H. Non ero molto capace di intendere e di volere mentre ho scritto 'sta roba e accidenti se si vede. Non so quanto si capisca ma per fortuna c'è il riassunto, non so nemmeno se tutto ciò sia fattibile o meno. Spero di sì altrimenti la valutazione cala a picco tre metri sotto la bianca, altroché.
    Ailis non ha riflessi abbastanza pronti da evitare Saiqa, ma riesce ad evocare la daga e la usa, piuttosto che per attaccare, per difendersi dal pugno di Zaher (credo che in questo caso si faccia destrezza contro destrezza e la differenza non è così ingente come tra destrezza e corpo), quindi usa la difesa media per proteggersi dalle fiamme. Cerca di distrarla con l'infamata e le spara. Ho ipotizzato che, viste le distanze prese da entrambe, a separarle ci sia un metro e mezzo, due metri massimo.


    a b i l i t à p a s s i v e

    ❛ c o n t r ô l e ❜
    All'inizio del suo apprendistato, la prima cosa che ha dovuto imparare è stata l'autocontrollo, la capacità di utilizzare il suo potere in base alla propria volontà senza che fosse preda delle emozioni. Una delle magie che usava spesso a livello inconscio era quella di far levitare gli oggetti, che senza preavviso di mettevano a galleggiare a mezz'aria nei momenti meno opportuni. Il primo esercizio che le è stato fatto eseguire consisteva nel perfezionarla, fino a permetterle di manovrare le cose a suo piacimento. Gli iniziali fallimenti l'hanno spinta a provare così tante volte che, alla fine, è diventato un automatismo. Ailis è capace di spostare gli oggetti facendoli allontanare o avvicinare a sé, alzare o abbassare, il tutto entro un raggio d'azione di cinque metri da sé. L'abilità, in ogni caso, non può essere usata per provocare danni. (passiva inferiore razziale)

    ❛ v u e ❜
    La famiglia di Ailis ha sempre cercato di renderla una di loro, una cacciatrice di streghe, senza sapere che una di quelle persone che avrebbero dovuto eliminare avesse il loro stesso sangue. Dal canto suo, Ailis non si è mai dimostrata molto portata: non ha sviluppato un fisico robusto e forte, non è diventata rapidissima, non è mai stata nemmeno troppo capace nell'uso delle armi, spesso troppo pesanti per le sue braccia. Tuttavia, non tutti gli allenamenti hanno costituito una grossa perdita di tempo da entrambe le parti. Il potenziamento dei sensi, in particolare la vista e l'udito, è considerato importantissimo dai cacciatori. Quello che Ailis ha sviluppato maggiormente è stato la vista, e grazie a questo è capace di vedere in modo nitido anche a grandi distanze e, purché ci sia una minima fonte di luce, è in grado di distinguere le sagome di ciò che la circonda anche nella penombra. (passiva inferiore razziale)



    a b i l i t à a t t i v e

    ❛ l a m e ❜
    La scelta di Ailis di usare un'arma a distanza è dovuta alla consapevolezza di non essere adatta ad un combattimento corpo a corpo, ma non è sprovveduta al punto da non essersi premunita nel caso si ritrovasse coinvolta in uno scontro ravvicinato. Concentrandosi, Ailis riesce a creare una daga fatta di ghiaccio lunga quaranta centimetri e larga cinque alla base che si restringe progressivamente fino alla punta e che resterà in campo per due turni. L'arma è priva di elsa e impugnatura e di conseguenza non viene impugnata direttamente, ma fluttua a pochi centimetri dalle dita della ragazza, la quale, per manovrarla, dovrà comunque compiere dei gesti con il braccio, esattamente come se la brandisse. Trattandosi di un'arma leggera, per il suo utilizzo si farà riferimento al parametro Destrezza. (attiva magica a costo basso, elemento ghiaccio) turno 1/2

    ❛ g e l e r ❜
    Ailis è sempre rimasta affascinata dalle caratteristiche dell'elemento ghiaccio: la capacità di rendere solidi i liquidi, di fermare il movimento delle acque, di essere talmente freddo da bruciare la pelle. Il suo interesse l'ha spinta a prediligerlo rispetto a tutti gli altri ed è su quello che ha concentrato gran parte dei suoi studi. La sua conoscenza del ghiaccio le ha permesso di manipolarlo a suo piacimento, ma esclusivamente con scopi difensivi. Può creare piccoli scudi, barriere e lastre di ghiaccio a costo medio da usare come protezione. (dominio elementale difensivo a costo medio)

  9. .


    Le aveva detto che il suo corpo non era reale. Le aveva detto che non avrebbe potuto ferirla.
    Ma il sangue che colava dalla ferita del proiettile, tingendo di rosso le stoffe chiare dei suoi abiti, le sembrava autentico in maniera quasi spaventosa, insieme al dolore che traspariva dai suoi movimenti. La vista del liquido scuro che impregnava le fibre dei vestiti fu sufficiente a chiuderle lo stomaco con un forte senso di nausea. Per quanto sciocco e ingenuo da parte sua, fu un sollievo vedere un muro di fiamme divorare i sei colpi, quelle piccole sfere che si scioglievano al calore senza lasciare alcuna traccia di sé.
    Il fuoco. L'adrenalina. La paura. Il sangue e la consapevolezza di essere stata lei a ferire. C'erano troppi elementi in comunque con la notte in cui aveva ucciso Val, troppi per non pensarci. Troppi per non sentire il senso di colpa tornare a bussare alla sua porta.
    Il malessere si ripresentò ancora, intensificato questa volta dallo sforzo. Usare due magie di quella portata non era stata la migliore delle idee. Prendeva respiri profondi, la testa che le girava e la costringeva ad abbassare le palpebre, serrarle, nella speranza che una volta riaperte l'ambiente avesse smesso di muoversi e vorticare. Teneva il busto leggermente inclinato in avanti per non perdere l'equilibrio.
    In quella situazione, non vide Zaher lanciare la sua prima magia. Fu solo per caso che notò quell'alone azzurrognolo che fluttuava nella sua direzione. Forse era uno scherzo della vista, della stanchezza, ma forse no. Divaricò appena le gambe per rendersi più stabile mentre la magia si attivava. Dal basso iniziò a formarsi una parete cristallina a sua protezione, appena in tempo perché il respiro della Giudice non la colpisse. Ghiaccio si aggiunse ad altro ghiaccio in corrispondenza del punto in cui si sarebbe dovuta trovare la sua gamba, propagandosi rapido sulla superficie già congelata; il suo scudo si infranse, senza più lasciare traccia di sé.
    Non ebbe il tempo di sospirare, sollevata all'idea di non aver evocato una difesa per niente, che un dolore acuto la colpì al braccio facendola gridare. Una lingua di fuoco era saettata lungo l'arto, ardendole i vestiti e carbonizzandoli. Il metallo della pistola si arroventò e, dopo pochi istanti in cui aveva tentato inutilmente di resistere, fu costretta a lasciare la presa e farla cadere a terra.
    L'ustione si estendeva dalla mano fino alla spalla seguendo la scia serpentina lasciata dalla magia di Zaher. Le fiamme avevano divorato l'epidermide e la carne sottostante era di un rosso viso e intenso, sembrava quasi pulsare, purulenta. Le era addirittura parso di sentire la sua pelle sfrigolare a contatto con quel calore così inteso e pregò che fosse solo il frutto rivoltante della sua immaginazione. Solo intravedere con la coda dell'occhio il braccio ridotto in quelle condizioni non fece che rincarare la dose e il suo stomaco già provato si esibì in acrobazie mai tentate prima. Poteva anche essere un'illusione, quel mondo, ma ogni danno inferto e subito era vero, e non il frutto della fantasia troppo fervida di qualcuno. Le ferite facevano male, la fatica le appesantiva il corpo, la debilitava, la paura stringeva tra le sue spire viscide e rivoltanti. Era tutto maledettamente reale.
    Il luccichio dello scettro dorato la riportò coi piedi per terra. Mosse la gamba di pochi centimetri verso sinistra e l'asta la colpì, ma solo di striscio, raschiando la pelle senza intaccare l'osso. Zaher era di nuovo vicina, troppo vicina, adesso che era vigile e non avrebbe più potuto coglierla di sorpresa. Sollevò il braccio sinistro, l'unico che fosse ancora in grado di muovere, il palmo aperto, in attesa. Senza sforzo richiamò a sé l'arma caduta e la impugnò. Era ancora calda, ma non in maniera insopportabile. La magia si trasferì rapida dalle dita al metallo. Puntò alla testa inizialmente, ma la sola idea che Zaher le avesse mentito, che avesse potuto effettivamente farle del male - ucciderla - la frenò. Un attimo prima di sparare abbassò il braccio e puntò al petto, pochi centimetri sotto la gola. Una ferita meno grave sono in grado di curarla, pensò mentre premeva il grilletto. Non voleva commettere di nuovo lo stesso errore. Non voleva più far del male solo per proteggere se stessa, solo per condurre una vita miserabile fatta di sensi di colpa. La Giudice voleva metterla alla prova? Va bene. Ma non voleva affondare ancora di più in quel pantano di rimorsi, bugie e sbagli. Si sarebbe dovuta accontentare di quello.
    Lo notò solo un istante dopo. Zaher aveva un'espressione compiaciuta sul viso, poco prima che le sparasse. Era... era soddisfatta di lei?



    Cor. 30 - Ess. 75 - Men. 40 - Con. 50 - Vel. 45 - Dest. 60


    Status fisico - danno alto da ustione al braccio destro, danno basso alla gamba destra, debilitata dal consumo di magia
    Status mentale - spaventata, affaticata
    Energia - 57 - 16 (geler) + 5 = 46%
    Riassunto - Alur. Ailis riesce a individuare Awal grazie alla passiva Vue che le rende la vista più sviluppata e para col dominio difensivo medio. Incassa Setta in toto e, visto che la pistola diventa ustionante e la cretina cerca di non lasciarla e visto che tre metri di distanza non sono poi così tanti (o sì?) ho aumentato il danno ad alto. Visto che ci sono solo cinque punti di differenza tra il parametro Corpo di Zaher e il parametro Velocità di Ailis, senza contare il debuff di Velocità di Zaher, Ailis riesce a limitare i danni alla gamba. Grazie alla passiva Controle recupera la pistola persa poco prima e spara nel petto a Zaher e non alla testa perché, ripeto, è cretina. E forse lo sono anch'io. Bon, a te!


    a b i l i t à p a s s i v e

    ❛ c o n t r ô l e ❜
    All'inizio del suo apprendistato, la prima cosa che ha dovuto imparare è stata l'autocontrollo, la capacità di utilizzare il suo potere in base alla propria volontà senza che fosse preda delle emozioni. Una delle magie che usava spesso a livello inconscio era quella di far levitare gli oggetti, che senza preavviso di mettevano a galleggiare a mezz'aria nei momenti meno opportuni. Il primo esercizio che le è stato fatto eseguire consisteva nel perfezionarla, fino a permetterle di manovrare le cose a suo piacimento. Gli iniziali fallimenti l'hanno spinta a provare così tante volte che, alla fine, è diventato un automatismo. Ailis è capace di spostare gli oggetti facendoli allontanare o avvicinare a sé, alzare o abbassare, il tutto entro un raggio d'azione di cinque metri da sé. L'abilità, in ogni caso, non può essere usata per provocare danni. (passiva inferiore razziale)

    ❛ v u e ❜
    La famiglia di Ailis ha sempre cercato di renderla una di loro, una cacciatrice di streghe, senza sapere che una di quelle persone che avrebbero dovuto eliminare avesse il loro stesso sangue. Dal canto suo, Ailis non si è mai dimostrata molto portata: non ha sviluppato un fisico robusto e forte, non è diventata rapidissima, non è mai stata nemmeno troppo capace nell'uso delle armi, spesso troppo pesanti per le sue braccia. Tuttavia, non tutti gli allenamenti hanno costituito una grossa perdita di tempo da entrambe le parti. Il potenziamento dei sensi, in particolare la vista e l'udito, è considerato importantissimo dai cacciatori. Quello che Ailis ha sviluppato maggiormente è stato la vista, e grazie a questo è capace di vedere in modo nitido anche a grandi distanze e, purché ci sia una minima fonte di luce, è in grado di distinguere le sagome di ciò che la circonda anche nella penombra. (passiva inferiore razziale)



    a b i l i t à a t t i v e

    ❛ c o n g é l a t i o n ❜
    A Hibernia la presenza del ghiaccio è una pericolosa certezza. Cinque mesi l'anno la temperatura scende sotto lo zero e le verdi pianure di quella terra vengono seppellite da diversi centimetri di neve, fiumi e laghi vengono ricoperti da spessi strati di ghiaccio. Ailis sa come muoversi in simili ambienti e conosce bene le conseguenze che il gelo ha sul corpo umano. Diminuendo drasticamente la temperatura attorno all'avversario, questa abilità le permette di provocare un depotenziamento pari a 45 del parametro Velocità per due turni. (attiva magica a costo medio di depotenziamento) turno 2/2

    ❛ g e l e r ❜
    Ailis è sempre rimasta affascinata dalle caratteristiche dell'elemento ghiaccio: la capacità di rendere solidi i liquidi, di fermare il movimento delle acque, di essere talmente freddo da bruciare la pelle. Il suo interesse l'ha spinta a prediligerlo rispetto a tutti gli altri ed è su quello che ha concentrato gran parte dei suoi studi. La sua conoscenza del ghiaccio le ha permesso di manipolarlo a suo piacimento, ma esclusivamente con scopi difensivi. Può creare piccoli scudi, barriere e lastre di ghiaccio a costo medio da usare come protezione. (dominio elementale difensivo a costo medio)

  10. .


    Il silenzio che calò dopo le sue ultime parole le parve innaturale. Le dava l'impressione di essere completamente sola, abbandonata a se stessa. Quell'assenza di suoni la opprimeva, sembrava fosse più pesante di un qualsiasi, infinito susseguirsi di parole, indipendentemente da quanto dure e crudeli potessero essere. Fissò Zaher sentendosi persa, gli occhi sgranati simili a quelli di un cucciolo smarrito. L'agitazione la costringeva a ridurre l'intervallo che separava un respiro dall'altro e di conseguenza il suo petto si alzava e abbassava a quel ritmo leggermente accelerato. Quei pochi istanti di mutismo le parvero durare un'eternità.
    La Giudice non la guardava nemmeno. Se ne stava con le palpebre abbassate, il suo ingombrante scettro stretto con forza tra le dita della mano. Forse l'aveva delusa. Anzi, sicuramente l'aveva delusa. Avrebbe dovuto essere abituata a quella consapevolezza, invece si ritrovò con un groppo alla gola che premeva fastidiosamente poco sotto il mento e le rendeva difficile e doloroso deglutire. Non avrebbe mai voluto che accadesse, ma nemmeno desiderava combattere, combatterla. Era troppo chiedere di non essere costretta a ferire o essere ferita?
    «Ailis». La voce di Zaher la riportò bruscamente coi piedi per terra, ancorata a quella realtà e non più all'impetuoso vorticare dei suoi pensieri, di quelle emozioni che non riusciva a controllare. Fu un sollievo sentire ancora quella voce dolce, il tono mite, l'atteggiamento affettuoso dell'altra ragazza. Ne aveva bisogno. Ammetterlo la imbarazzava, ma era evidente al punto che non valeva neanche la pena negarlo. Era stata la gentilezza di Valerie e Constance a permetterle di accettare la realtà, anni prima; forse quella di Zaher poteva spingerla ad affrontarla, ad andare avanti un passo dopo l'altro senza scappare dalle difficoltà. A uscire da quel posto e tornare – o cominciare? - davvero a vivere. «Calmati: non c'è niente di cui aver paura». Su quel punto Ailis non concordava. Doveva lottare e non voleva. Non sapeva come sarebbe andata a finire se l'avesse fatto, non sapeva cosa sarebbe successo se si fosse rifiutata. Quella prospettiva era più che sufficiente a spaventarla.
    «Non mi farai del male. Non puoi farmene, vedi,» seguì con occhi attenti il gesto della mano, «questo corpo non è reale. Non possiedo un corpo, sono solo un'idea, uno spirito capace di esistere solo in questa realtà, solo all'interno del Deep Dive».
    Mosse la testa all'indietro di appena un centimetro, di scatto, gesto che tradì un certo stupore. Quindi... nulla di tutto quello che la circondava era reale? Neanche Zaher stessa lo era? Distolse lo sguardo nel tentativo di riordinare le idee, cercando di capire come potesse un'idea, come l'altra si era definita, essere così... vera. Le aveva parlato, l'aveva abbracciata, aveva sentito il suo profumo, il suono della sua voce. Come poteva essere una...
    Scosse la testa. Non sarebbe arrivata da nessuna parte con quei ragionamenti. Si conosceva: avrebbe potuto continuare a pensarci senza trovare risposta e la frustrazione del non capire l'avrebbe spinta a rimuginarci ancora e ancora, all'infinito. Sfortunatamente, dubitava di avere così tanto tempo a disposizione. Zaher era stata chiara sul punto: era quasi ora di andare.
    «Non avere paura, dunque: non puoi farmi del male. Sono io che te lo chiedo, che ti chiedo di combattere, di dimostrarmi ciò di cui sei veramente capace. Non quello che tuo padre e tua zia dicevano che non eri, ma ciò che sei adesso». Il riferimento alla sua famiglia la colse impreparata e, istintivamente, gli occhi si posarono sul terreno ai loro piedi, sui fili d'erba rigogliosa e sui fiori. Lo stomaco si contrasse al pensiero della lapide grigia sotto la quale riposava suo padre. Era morto prima di essere riuscita a trovare il coraggio di dirgli la verità, e lei avrebbe vissuto senza mai sapere se sarebbe riuscito ad accettare l'idea di avere una strega come figlia o se l'avrebbe uccisa con le sue stesse mani. Sua zia, poi, dopo quella notte aveva finalmente iniziato a pensare che non fosse un caso perso, e che anzi potesse essere una buona cacciatrice. Dopotutto aveva ucciso una di quelle maledette fattucchiere, da sola, riuscendo dove l'intero clan aveva fallito. Le venne quasi da ridere, con amarezza, al pensiero che le i rapporti con i componenti della sua famiglia si basavano esclusivamente su bugie.
    «Per favore, Ailis». No, per favore, Zaher, semmai. Aveva capito di non avere scelta. O combatteva, qualunque potesse essere l'esito, o sarebbe rimasta bloccata in un'illusione, rispedita indietro senza più avere la possibilità di andarsene o chissà cos'altro. Non ne era capace, ma in qualche modo avrebbe dovuto arrangiarsi.
    Portò la mano sinistra alla tracolla che sembrava tagliarle il busto in obliquo, stringendola tra le dita. La pistola, l'unica arma a sua disposizione, era nella borsa. L'aveva portata con sé per proteggersi dai pericoli, non per attaccare deliberatamente qualcuno, specie se a quel qualcuno si era affezionata.
    Inspirò, riempendosi i polmoni di ossigeno nel tentativo di mantenere un po' di calma e un briciolo di lucidità. Non aveva scelta. Odiava non avere la possibilità di fare a modo suo, di doversi sottomettere a quello che altri avevano deciso per lei. Non ce l'aveva con Zaher per quello, ma le sembrava comunque ingiusto. Buttò fuori tutta l'aria che aveva incamerato con un soffio. Alzò lo sguardo, osservando le iridi rosse della ragazza. La distanza tra di loro era minima, poco più di un metro, forse due. «Lo trovo comunque scorretto» mormorò. «Non vorrei combattere».
    Cercò di essere il più rapida possibile nell'infilare la mano destra nella borsa e afferrare la pistola. Armò il cane col pollice prima ancora di estrarla, concentrando la magia nel metallo e poi nella camera di scoppio. Non si preoccupò di prendere la mira: premette l'indice sul grilletto non appena il braccio, teso in avanti, arrivò all'altezza dell'addome di Zaher. Non sapeva se l'avrebbe colpita e nemmeno dove. Le serviva solo come diversivo per mettere quanta più distanza possibile tra lei e quella che adesso era la sua avversaria. Probabilmente, no, sicuramente era stata sleale, ma se c'era una sola cosa che aveva imparato, di tutte quelle che il clan aveva cercato di inculcarle, era che l'onore e la lealtà non ti salvavano la vita. Ti rendevano solo un bersaglio fin troppo facile da colpire.
    Nell'istante successivo allo scoppio, Ailis girò su se stessa e iniziò a correre. Era un errore dare le spalle al nemico, ma la sua priorità era allontanarsi, mettere quanta più distanza possibile tra di loro. Quando si fermò, voltandosi nuovamente verso la Giudice, dovevano esserci cinque, massimo sei metri a separarle. Individuò Zaher. Il respiro accelerato non le avrebbe permesso di sparare con sufficiente precisione, quindi alzò il braccio sinistro, la mano libera aperta e tesa contro l'altra ragazza mentre si concentrava. Il suo respiro si condensò in una nuvoletta di vapore, insolita considerando la temperatura mite di quel paradiso che l'altra aveva creato. Sentì la magia che fluiva dentro di lei permeando ogni cellula del suo corpo, e con essa una brezza fresca che andò a lambire le porzioni di pelle non coperte dai vestiti. Quella stessa corrente avrebbe dovuto intensificarsi e stringere l'avversaria nella sua morsa gelida, il freddo avrebbe dovuto avvinghiarsi alla sua pelle e penetrare nelle sue carni, intorpidendole i muscoli e rallentandone i movimenti.
    Anche se avesse funzionato non sarebbe durato a lungo, lo sapeva. Strinse le dita attorno alla pistola mentre la impugnava con entrambe le mani, di nuovo puntata contro Zaher. Non era certa di quello che stava facendo, non sapeva nemmeno se sarebbe stata in grado di restare in piedi, dopo. Ma se fosse riuscita a rallentarla, avrebbe avuto un, seppur minimo, vantaggio. Non era brava a combattere, né ad elaborare strategie: se aveva anche solo una possibilità di concludere tutto e subito, doveva prenderla al volo.
    L'arma cominciò a sprigionare una luce azzurrina mentre caricava il colpo, la magia si trasferiva dai polpastrelli al metallo che, al tocco della sua pelle, si stava lentamente scaldando. Guardò il viso di Zaher per la prima volta da quando aveva iniziato ad attaccare ed esitò – un solo istante, forse uno di troppo. Si diede della stupida. Le aveva detto di non preoccuparsi, non doveva farlo. Relegò in un angolo della propria mente i sensi di colpa e premette il grilletto. Sei piccole sfere luminose, di pochi centimetri di diametro, fuoriuscirono dalla canna creando una sorta di cerchio, tutte dirette contro il suo unico bersaglio, ma in punti diversi: uno per ogni arto, uno per il torso e uno per la testa.
    Il rinculo dell'arma rischiò di farle perdere l'equilibrio. Fu abbastanza pronta di riflessi per spostare una gamba indietro, a sorreggersi e impedirsi di cadere. Non era abituata ai ritmi della battaglia, non era abituata alla paura che si provava, all'adrenalina che scorreva nel suo corpo, alla fatica che già iniziava a farsi sentire. Lo odiava.



    Cor. 30 - Ess. 75 - Men. 40 - Con. 50 - Vel. 45 - Dest. 60


    Status fisico - ottimale
    Status mentale - agitata, insicura
    Energia - 100 - 16 (congelation) - 32 (bourrasque) + 5 = 57%
    Riassunto - Ahahahah. Ahah. Ah. Iniziano le note dolenti. Ok, saltiamo la parte dell'autocommiserazione. Visto che Zaher e Ailis sono state vicine vicine fino a quel momento ho ipotizzato potessero esserci massimo massimo due metri di distanza, giusto perché se non erro nel post prima la mia bimba aveva mosso un passo indietro. Quindi le spara da distanza ravvicinata e si allontana, puntando sul fatto di averla colta di sorpresa e magari ferita. Poi niente, usa l'attiva di depotenziamento medio del parametro velocità e poi l'attiva alta offensiva. Spero di non aver fatto disastri su disastri.


    a b i l i t à p a s s i v e

    ❛ c o n t r ô l e ❜
    All'inizio del suo apprendistato, la prima cosa che ha dovuto imparare è stata l'autocontrollo, la capacità di utilizzare il suo potere in base alla propria volontà senza che fosse preda delle emozioni. Una delle magie che usava spesso a livello inconscio era quella di far levitare gli oggetti, che senza preavviso di mettevano a galleggiare a mezz'aria nei momenti meno opportuni. Il primo esercizio che le è stato fatto eseguire consisteva nel perfezionarla, fino a permetterle di manovrare le cose a suo piacimento. Gli iniziali fallimenti l'hanno spinta a provare così tante volte che, alla fine, è diventato un automatismo. Ailis è capace di spostare gli oggetti facendoli allontanare o avvicinare a sé, alzare o abbassare, il tutto entro un raggio d'azione di cinque metri da sé. L'abilità, in ogni caso, non può essere usata per provocare danni. (passiva inferiore razziale)

    ❛ v u e ❜
    La famiglia di Ailis ha sempre cercato di renderla una di loro, una cacciatrice di streghe, senza sapere che una di quelle persone che avrebbero dovuto eliminare avesse il loro stesso sangue. Dal canto suo, Ailis non si è mai dimostrata molto portata: non ha sviluppato un fisico robusto e forte, non è diventata rapidissima, non è mai stata nemmeno troppo capace nell'uso delle armi, spesso troppo pesanti per le sue braccia. Tuttavia, non tutti gli allenamenti hanno costituito una grossa perdita di tempo da entrambe le parti. Il potenziamento dei sensi, in particolare la vista e l'udito, è considerato importantissimo dai cacciatori. Quello che Ailis ha sviluppato maggiormente è stato la vista, e grazie a questo è capace di vedere in modo nitido anche a grandi distanze e, purché ci sia una minima fonte di luce, è in grado di distinguere le sagome di ciò che la circonda anche nella penombra. (passiva inferiore razziale)



    a b i l i t à a t t i v e

    ❛ c o n g é l a t i o n ❜
    A Hibernia la presenza del ghiaccio è una pericolosa certezza. Cinque mesi l'anno la temperatura scende sotto lo zero e le verdi pianure di quella terra vengono seppellite da diversi centimetri di neve, fiumi e laghi vengono ricoperti da spessi strati di ghiaccio. Ailis sa come muoversi in simili ambienti e conosce bene le conseguenze che il gelo ha sul corpo umano. Diminuendo drasticamente la temperatura attorno all'avversario, questa abilità le permette di provocare un depotenziamento pari a 45 del parametro Velocità per due turni. (attiva magica a costo medio di depotenziamento) turno 1/2

    ❛ b o u r r a s q u e ❜
    Ailis non ama combattere, né ferire, men che meno uccidere. Sa però che non può difendersi senza doverlo fare, anche se preferisce usare la violenza solo quando non c'è possibilità di risolvere situazioni rischiose in modo diverso. Questa tecnica consiste nel concentrare una grande quantità di energia nell'arma, intenzione tradita da una luce azzurra che l'oggetto emana per tutta la durata della preparazione all'attacco. Nel momento in cui viene premuto il grilletto, dalla pistola partono sei diversi diversi colpi, simili a piccole sfere dal diametro di tre centimetri l'una e illuminate anch'esse di una luce azzurra, che, muovendosi inizialmente a spirale, si direzioneranno contro nemici multipli o contro un unico nemico, in base alla volontà di Ailis. Qualora tutti e sei i colpi vadano a segno su un solo bersaglio, il danno riportato sarà alto. (attiva magica offensiva a costo alto, elemento ghiaccio)



    edit: avevo dimenticato i + 5 di recupero


    Edited by walpurrrgisnacht. - 11/7/2017, 12:10
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    Io arrivo un po' tardi ma va bene lo stesso, no? sì :lR2XV.gif: Benvenuto e tranquillo, non sei l'unico a dover familiarizzare con le regole çwç
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    Ma benvenuto! *lancia coriandoli in giro
  13. .


    Era una stretta dolce, così dolce da far sciogliere quel grumo di sensi di colpa e dolore che sentiva all'altezza dell'addome e che le rendeva difficile respirare. L'abbraccio sembrava rassicurarla, prometterle che il peggio era passato, che dopo aver toccato il fondo le cose avrebbero soltanto potuto migliorare. Il tocco gentile della mano che le accarezzava i capelli aveva un che di materno e il suo ripetersi lento e costante le fece perdere quel poco di autocontrollo che poteva vantare. Un singhiozzo scivolò dalle sue labbra socchiuse e, nonostante lo sforzo di trattenersi, sentì nuove lacrime sgorgare dagli occhi e farsi strada sulla pelle accaldata. La dita sottili si strinsero sulla stoffa della veste di Zaher, ricambiando l'abbraccio come se la ragazza fosse la sua ancora di salvezza, l'unico appiglio che le impediva di annegare negli oscuri abissi del rimorso. Si nascose contro la sua spalla, con il risultato di impregnarle la maglia di tante, piccole gocce salate.
    Ma poi, aveva davvero il diritto di piangere, di autocommiserarsi in quel modo? Aveva il diritto di scappare, di lasciarsi tutto alle spalle, di cercare una vita migliore in un mondo nuovo che non la costringesse, giorno dopo giorno, a ritrovarsi faccia a faccia con i risultati dei suoi errori? No. Certo che no. Ma Ailis sapeva di essere una vigliacca e un'egoista, e lo faceva comunque. Scappava, sempre. Dai problemi, dalle responsabilità, da quello che la spaventava. Le sembrava di correre da tutta una vita. Le sue gambe non la reggevano più, i polmoni la imploravano di fermarsi a riprendere fiato, i muscoli si laceravano per lo sforzo. Ma continuava a correre. Ancora e ancora, sempre più lontano. Non sapeva se si sarebbe mai fermata, la sola idea la terrorizzava al punto di impedirsi anche solo di rallentare, di prendersi un po' di tempo per guardarsi intorno e capire effettivamente dove quella fuga infinita la stesse conducendo, se nel luogo sicuro che anelava o in uno ancor peggiore di quello da cui era partita. Anche se il suo cuore fosse scoppiato per la fatica, le sarebbe stato bene. Forse era condannata a non trovare pace, ma quanto meno l'avrebbe cercata fino alla fine, fino a quando il suo corpo e la sua anima non avrebbero ceduto.
    Quella stretta, però, le diceva che si sbagliava. Persino una come lei poteva essere compresa e non solo compatita. Era degna di ricevere un minimo di conforto, di sentirsi dire che non era colpa sua, anche se era una bugia. Forse doveva solo... fermarsi. Smettere di dare le spalle ai problemi senza guardarsi indietro. Non sarebbe riuscita ad affrontarli tutti, ma poteva iniziare da quelli meno complicati. Poteva tornare sui suoi passi e cercare di rimediare ai suoi sbagli. Non a tutti c'era soluzione, e quelli l'avrebbero tormentata in eterno, senza darle la possibilità di perdonarsi. Però sarebbe comunque stato un miglioramento. Stava raschiando il fondo del barile, peggio di così non si sarebbe potuta sentire.
    Inspirò a bocca aperta, il petto che le vibrava a causa del pianto troppo recente. Quando fece fuoriuscire tutta l'aria raccolta, si sentì svuotata. Non sapeva se fosse positivo o meno, però si sentiva un po' meglio, più leggera.
    Le mani lasciarono la presa sulla veste di Zaher quando questa sciolse l'abbraccio. Il suo sorriso gentile era lì. Non c'era biasimo nel suo sguardo, né ribrezzo, né qualunque altra cosa temesse di trovarvi. Solo quella gentilezza che le aveva rivolto fin dal primo momento e che trovava disarmante. «Spero vada meglio...». La ragazza annuì con un cenno, un leggero oscillare della testa. Avrebbe voluto riuscire ad esprimere quanto le fosse riconoscente per averle dato il conforto di cui aveva bisogno, qualcosa che credeva più nessuno le avrebbe concesso, ma sapeva di non essere brava con le parole. Era difficile scegliere quelle giuste, articolarle fino a formare un discorso comprensibile e che non finisse col rovinare tutto.
    Mentre Zaher si alzava, Ailis andò rapida ad asciugarsi il viso, le maniche ormai coperte di aloni umidi che ne scurivano il colore. Avrebbe dovuto smettere di piangere, prima o poi. Poco alla volta.
    «Ailis» il suono della voce dell'altra la costrinse ad alzare il viso. «È quasi ora che tu vada, c'è solo un'ultima cosa da fare». Andare? Andare dove? Non... non voleva andarsene. Non quando finalmente si sentiva meglio di come fosse stata negli ultimi giorni. Certo, l'inizio nel Deep Dive non era stato dei migliori, ma le cose erano cambiate in fretta. «Immagino di non avere scelta» mormorò, più per convincere se stessa che per ricevere una risposta. Raccolse le gambe e si mise in piedi, strofinando i palmi aperti sui vestiti per eliminare i fili d'erba che vi erano rimasti attaccati. Quando si ritrovò a guardare il viso di Zaher sentì un brivido scenderle giù lungo la spina dorsale, vertebra dopo vertebra. Qualcosa l'aveva fatta rabbuiare, un qualcosa a cui non era ancora in grado di dare un nome ma che, era certa, non sarebbe stato di suo gradimento, affatto. Ed evidentemente, lo stesso valeva per la Giudice.
    «Ricordi quello che ti ho detto prima? Quando ti ho accennato della formalità?» cominciò. Dal tono con cui aveva parlato, immaginava non si trattasse di firmare delle carte o fare qualcosa di altrettanto elementare.
    Non mi piace. Non mi piace neanche un po'.
    «Ecco, vedi… Il Deep Dive è la culla dei guerrieri, di coloro che sono capaci di superare ostacoli sia mentali che fisici». Ancora quella storia. Era quanto di più lontano potesse esserci dall'idea di un guerriero. Era piccola, incapace, debole, patetica e inutile. Aveva preferito ferire le persone che amava piuttosto che trovarsi faccia a faccia con le sue paure peggiori. Era una vigliacca, una codarda. Come poteva lei essere una combattente? «Io...» Zaher esitò e l'agitazione di Ailis andò crescendo. «Per uscire da qui dovrai scontrarti con me, dimostrarmi la tua forza».
    No. Fu l'unico pensiero che la sua mente riuscì a formulare mentre il suo corpo, istintivamente, muoveva il piede destro indietro, pronto ad allontanarsi, a cercare un riparo qualora fosse stata attaccata. Tra tutte le cose che potevano essere fatte, perché proprio quello?
    «N-Non voglio combattere» disse, il tono frettoloso, la voce che le tremava, così come le gambe, le braccia, ogni fibra del suo essere vibrava in modo più o meno percettibile. A dispetto della sua insicurezza, però, di quello era assolutamente certa. Sapeva di non essere capace di combattere. Quando era con la sua famiglia non si parlava d'altro, di quanto fosse vergognoso per tutto il clan che lei non fosse nemmeno in grado di tenere un coltello dalla parte del manico. I suoi movimenti erano goffi e approssimativi e c'era sempre qualcuno a ricordarle che, davanti ad una strega, sarebbe morta non appena cominciata la battaglia. Certo, quando aveva effettivamente partecipato ad una caccia – la sua prima e ultima – le cose erano andate molto diversamente, ma Valerie non l'aveva mai attaccata, il pensiero non doveva averla nemmeno sfiorata.
    «Non voglio ferire nessuno, nemmeno per sbaglio». Sentiva i muscoli tendersi fino quasi a farle male. «Soprattutto, non voglio rischiare di ferire lei» precisò. In quei pochi minuti trascorsi insieme, Zaher aveva fatto per lei molto più di quanto avessero fatto i suoi parenti in quasi vent'anni, le aveva dato ciò di cui più aveva bisogno in quel momento, la stava aiutando a sentirsi un po' meno colpevole per le azioni che si era ritrovata a commettere.
    E allora perché? Perché doveva combattere?



  14. .


    «Per ora niente, parliamo e basta, anche se prima che tu esca dovrai aiutarmi anche con un’altra cosa. Niente di preoccupante, per carità, solo una piccola formalità». Ailis non poté celare il sollievo nel sentire la Giudice pronunciare quelle parole. Sentì i propri muscoli contratti sciogliersi un po', le spalle e le braccia si rilassavano man mano che si convinceva che, almeno per un po', avrebbe potuto stare tranquilla. Zaher si stava dimostrando una persona incredibilmente gentile e non sembrava avere cattive intenzioni. Avrebbe avuto qualche minuto per rilassarsi, per riprendersi da quella giostra di emozioni che era stata la sua vita negli ultimi tempi. Si sentiva stanca prima ancora di cominciare.
    «Quindi» Zaher, dopo essersi seduta sull'erba, la invitò a raggiungerla con un gesto della mano. Piegò le ginocchia fino a quando non toccarono terra e si sistemò di fronte a lei. I sottili fili d'erba le solleticavano le porzioni di pelle scoperta, ma erano morbidi. Avrebbe potuto addormentarsi su quell'immensa coperta verde, cullata dalla leggera brezza che faceva ondeggiare ciocche di capelli e vestiti. Si stava bene, lì. Era decisamente meglio di Liffrey Street. «Parlami di te, Ailis. Cosa ti piace? Studiare, cucinare, scrivere, leggere?», La ragazza si ritrovò a guardarla con le sopracciglia sollevate in un'espressione che lasciava trasparire un leggero stupore. Non si aspettava una conversazione di quel tenore, così informale e leggera, ma la cosa non le dispiaceva, tutt'altro. Era un po' che non si ritrovava a parlare del più e del meno senza ritrovarsi a pensare ad altro. «Io ad esempio adoravo cucinare! Era la mia attività preferita; anche se, sarò onesta, mio marito era decisamente migliore». Benché nel suo mondo fosse normale sposarsi giovani, si ritrovò sorpresa nello scoprire che Zaher era sposata – o meglio, da come ne parlava, era stata sposata. Forse suo marito era morto, forse se n'era andato. In ogni caso, non doveva essere più lì, eppure ne parlava serenamente, lasciandosi andare ad una risata spontanea mentre parlava di lui. Il suo stomaco, invece, fece le capriole. Doveva avere all'incirca la sua età, eppure era già rimasta sola. «Ho fatto certi disastri in cucina che credo tu non possa nemmeno iniziare a immaginare!». Ailis si ritrovò a sorridere mentre le parlava delle sue disavventure ai fornelli, ripensando a quando aveva dovuto imparare a cucinare. Aveva preparato cose immangiabili nei primi tempi, e il solo ricordo di quei piatti nauseanti la fece rabbrividire. In quello, almeno, era migliorata. Nessuno, in casa, faceva uno stufato migliore del suo.
    «Il che mi fa pensare» fece Zaher, cambiando argomento in modo inaspettato e repentino. Sul suo viso si dipinse un'espressione che la mise a disagio ancor prima che l'altra potesse finire di formulare la frase. Valerie l'assumeva fin troppo spesso per non riconoscerla. «Non è che per caso c’è qualcuno che TI piace?» domandò, dando concretezza ai timori della strega. L'imbarazzo sbocciò sul suo viso come un fiore rosso, donando alle guance un colore ben più intenso e salubre di quello che il suo incarnato pallido le dava. Aveva spostato il busto all'indietro mentre l'altra si avvicinava, quasi avesse paura che potesse scorgere nel proprio sguardo qualcosa che nemmeno lei era riuscita a comprendere. «Nessun bisogno di essere timida al riguardo, Ailis, prometto che non dirò a nessuno!». Di quello non dubitava: anche qualora gliel'avesse detto, non credeva che a qualcuno all'infuori di lei interessasse la sua vita sentimentale. Non che ne avesse una.
    Zaher si allontanò da lei e, con un colpo di tosse, cercò di riacquistare dignità e compostezza. «Tornando seri» riprese. «Davvero, qualunque cosa, parlami di te».
    La ragazza tacque per un po'. Non le piaceva molto parlare di sé, era una cosa che trovava quasi fastidiosa. Cos'avrebbe dovuto dire? Non aveva nulla di interessante da raccontare. Quelle che per lei erano cose belle spesso risultavano noiose a chiunque altro, e per quanto riguardava quelle brutte, bé, ne aveva già parlato. E non era nemmeno certa di riuscire a raccontarle senza rendersi ridicola.
    «Ecco...» cominciò, più per prendersi un altro po' di tempo per pensare che per iniziare davvero ad articolare un discorso. Rassegnata, optò per rispondere alle domande che Zaher le aveva posto. «Mi piace molto studiare, anche se è stata una scoperta tutto sommato recente. I cacciatori non perdono molto tempo sui libri. Molti di loro hanno conoscenze basilari su tantissimi campi, perché fin da piccoli ci si concentra sull'addestramento». Parlava lentamente, scandendo bene le parole come se questo potesse contribuire ad alleggerirle. Faceva fatica a guardare la sua interlocutrice negli occhi, lo sguardo si spostava sempre verso il basso, sulla zolla d'erba tra di loro, e non riusciva a tenere ferme le mani. Appoggiate sulle gambe, si tormentavano a vicenda, le dita che si intrecciavano, le unghie che strisciavano sulla pelle, quasi incapaci di starsene ferme al loro posto. «E anche cucire. Sono abbastanza brava in quello. Valerie diceva che non ero capace di disegnare modelli e che ho un pessimo gusto nel vestire. Ha preteso di rifarmi il guardaroba non appena mi ha assunta nel suo negozio. Però diceva anche che ero una brava sarta». Il tono della sua voce era andato man mano calando, fino ad affievolirsi del tutto. Come poteva parlare con serenità se qualunque cosa si ricollegava a lei? «In realtà credo che...» tentennò per un istante, giusto il tempo necessario per assicurarsi che la sua voce non si incrinasse. «Credo che mi piacesse qualunque cosa facessi alla maison. Studiare la magia, cucire, persino fare l'inventario, fare i conti a fine giornata, parlare con le clienti, farmi prendere in giro da quelle due» ammise con un sorriso triste sulle labbra. «E questo si ricollega all'altra domanda, credo». Si sentiva la bocca terribilmente secca e deglutì a vuoto. «Io non... non lo so. So che tra quelle mura mi sentivo più a casa che in qualunque altro posto. Valerie e Constance non mi hanno mai fatta sentire inadeguata o inutile. Loro non erano come la mia famiglia, ci tenevano a me. E io tenevo a loro». Si interruppe, restando in silenzio nel tentativo di trovare le parole adatte, parole che non riuscì a trovare. Se davvero quello che provava era reale, se davvero teneva a loro più di chiunque altro, perché non se n'era andata con loro? Perché? Perché?
    Gli occhi le si riempirono di lacrime, che scivolarono rapide lungo le guance e, raggiunto il mento, caddero sulle mani e sulle dita. Se solo avesse detto di sì, nulla di tutto quello sarebbe accaduto. Se solo avesse detto di sì, non avrebbe provato il desiderio di strapparsi il cuore dal petto e lanciarlo lontano, solo per smettere di provare quel dolore insopportabile. Avrebbe voluto riuscire a liberarsene e, allo stesso tempo, la sola idea la terrorizzava. Non poteva non provare nulla dopo quello che aveva fatto. Forse non meritava nemmeno di passare momenti felici, sereni, tranquilli. Non meritava nulla.
    Si asciugò gli occhi con le maniche della maglia, tenendo lo sguardo ostinatamente basso. Si riempì d'aria i polmoni, la trattenne per qualche istante prima di espirarla lentamente. «Mi dispiace» disse, poche parole sussurrate al vento, appena udibili. «Io... io volevo bene ad entrambe, lo giuro. È colpa mia se Val è morta e Constance...» esitò, e al ricordo del loro ultimo incontro fu istintivo portarsi una mano alla gola mentre un brivido le percorreva la schiena. «Constance mi odia». Come biasimarla? Avrebbero potuto avere tutto quello che desideravano, una vita nuova in qualche posto sconosciuto, felici, tutte e tre. Ma erano rimaste loro due, da sole, senza nessuno ad aiutarle e niente che le sostenesse.

  15. .


    Si prese qualche istante, mentre la Giudice elaborava le sue parole, per convincersi che avrebbe dovuto accettare il verdetto, indipendentemente da cosa avrebbe comportato. Qualunque condanna le avessero dato, non era nulla che non si meritasse. Ad occhi chiusi prese un bel respiro, tentando come possibile di ignorare l'odore di fumo e di bruciato che aleggiava per la via. Aveva paura. Si sentiva le gambe molli al punto di non essere certa che riuscissero a sostenerla e le allargò di qualche centimetro per assumere una posizione un po' più stabile.
    Quando sollevò le palpebre, si stupì nel vedere che la sua interlocutrice sembrava essere piuttosto confusa, con gli occhi sgranati come se avesse sentito chissà quali eresie uscire dalle sue labbra, e non riuscì a comprenderne il motivo. «No, no!» si affrettò a smentirla Zaher, accompagnando alle parole i gesti rapidi delle mani. «Non saltare subito alle conclusioni, ti prego». Vide il suo scettro oscillare pericolosamente a destra e a sinistra e le venne istintivo muovere una mano nella sua direzione, anche se la ritrasse subito dopo. «Faccia attenzione...» disse in un tono più basso del voluto, probabilmente l'altra non l'aveva nemmeno sentita. Adesso, però, era lei a non capire. La ragazza aveva detto di essere un giudice, ma, a quanto sembrava, quello non era il suo processo, né per stregoneria, né per decidere come sarebbe stata punita per ciò che aveva fatto. Non osò sentirsi sollevata dalla notizia, non ancora. Supponeva che qualcosa dovesse comunque accadere, anche se non riusciva a immaginare di cosa potesse trattarsi.
    «Non...». Dopo qualche istante Zaher aveva ripreso a parlare, solo per interrompersi subito dopo. Stava cercando di formulare il discorso in modo che le sue parole non potessero essere nuovamente travisate, persino Ailis riuscì ad intuirlo. «Non si tratta di un processo per quanto hai fatto. Quello che è successo non è di mia competenza. Al riguardo posso solo dirti che non sei da biasimare: non hai avuto scelta».
    Non era vero. Forse Zaher poteva pensarla in quel modo, ma Ailis aveva avuto una scelta. Avrebbe potuto andarsene e dire addio a quella vita di pericoli, e aveva avuto tante occasioni per farlo: quando Val gliel'aveva proposto la prima volta, alla sartoria, e quando aveva minacciato di dire la verità ai cacciatori. Se gliel'avesse lasciato fare, sarebbero scappate, avrebbero recuperato Constance e poi cominciato una nuova vita da qualche altra parte, in un altro luogo o in un altro mondo, tutte e tre insieme. Invece si era comportata da stupida e ingenua. Perché non aveva detto di sì? Non c'era nulla a legarla a quel posto, a quella famiglia, nulla. Se n'era andata, alla fine, ma solo dopo aver commesso errori su errori, dopo aver perso tutto quello a cui più teneva. Ailis sapeva di aver avuto una scelta, ma di aver preso quella sbagliata.
    «Il motivo per cui sono qui, Ailis, è per essere la tua guida, più che un giudice» proseguì la ragazza. La strega, però, continuava a non capire cosa intendesse dire. «Il Deep Dive è la culla dei guerrieri, di coloro che possiedono una volontà salda e forte, capaci di affrontare i pericoli e gli orrori che gli vengono posti davanti e di superarli, cuore e corpo ancora intatti».
    Dopo la spiegazione, Ailis si chiese cosa ci facesse lei in quel posto. Di certo non era una guerriera. Sarebbe stata la gioia del clan se lo fosse stata, invece i suoi movimenti erano impacciati e approssimativi, e le armi erano spesso troppo pesanti perché lei riuscisse ad utilizzarle correttamente senza rischiare di farsi male. E anche qualora avesse voluto intendere guerriero in senso non letterale, bé, non si riteneva affatto capace di affrontare alcunché, specie in quel momento. Le sue ultime decisioni non avevano fatto altro che confermare ciò che già sapeva: non era in grado di affrontare i problemi e le situazioni difficili. Tutto quello che riusciva a fare era scappare, voltare le spalle agli ostacoli piuttosto che prenderli di petto e agire di conseguenza.
    «E non dire subito che non sei una guerriera, che la tua volontà e tutt'altro che salda e forte». Mentre osservava il sorriso dolce di Zaher, si chiese se fosse capace di leggerle nel pensiero, o se piuttosto fosse lei ad essere un libro aperto. Si astenne quindi dal parlare e smentire le parole dell'altra. Se già sapeva cosa pensava al riguardo, era inutile sprecare fiato. Abbassò lo sguardo e si accorse che la Giudice si stava avvicinando solo nel momento in cui le scarpette di stoffa dell'altra entrarono nel suo campo visivo, quand'ormai le era talmente vicina che avrebbe potuto toccarla solo allungando un po' il braccio. Vedendo la mano alzata capì subito le sue intenzioni e istintivamente si strinse nelle spalle e serrò le palpebre. L'indice la colpì impietoso, ma senza farle male. «Perché non è vero: già il fatto che tu sia qui lo dimostra». Il fatto che si trovasse lì doveva essere un errore, ma non trovò il coraggio di dirlo.
    Quando riaprì gli occhi Zaher aveva ripristinato le distanze tra di loro e la sua espressione, prima dolce e poi maliziosa, era diventata triste mentre guardava il paesaggio desolato che le circondava. C'era poco di cui stare allegri in un luogo simile e probabilmente era la stessa cosa a cui stava pensando la Giudice. Di qualunque cosa potessero discutere, bastava un solo sguardo per cadere nello sconforto. «Hmm...» rifletté la ragazza. «In ogni caso, ti andrebbe bene un… leggero cambio di ambientazione?». Batté le mani senza aspettare una sua risposta. Dallo spazio lasciato tra i cubetti di pietra che ricoprivano la strada cominciarono a spuntare dei ciuffetti verdi, ad una velocità tale che nel giro di qualche istante l'intero lastricato era stato ricoperto da uno spesso manto d'erba. Lo stesso destino toccò agli edifici, fino a quando non rimase più nulla di quella che, fino a qualche momento prima, era stata la principale strada commerciale della città. Dopo il cambiamento che Liffrey Street aveva avuto sotto i suoi occhi qualche istante prima, non avrebbe dovuto meravigliarsi anche di quello, ma lo fece comunque. Guardò da una parte all'altra, ammirando fiori dai petali carnosi e dai colori intensi, le chiome folte degli alberi, le foglie dei rampicanti che avevano avvolto ogni costruzione, nascondendo alla vista le macerie della sua vita passata.
    «Spero sia di tuo gradimento, Ailis». La voce di Zaher la riportò coi piedi per terra e la spinse a posare lo sguardo su di lei. «È...» cominciò a parlare, ma nuovamente la sua attenzione fu colta da qualche dettaglio che prima non aveva notato, una pianta che non conosceva o qualche fiore particolarmente bello. Era difficile immergersi in quel paesaggio senza restarne ammaliati, specie se si considerava cos'era andato a sostituire. «È meraviglioso» disse, mentre muoveva qualche passo verso l'albero più vicino e ne sfiorava le foglie, curiosa e un po' spaventata all'idea di sentirle inconsistenti sotto il tocco delle dita. «Grazie» aggiunse, sincera. Era scappata dal suo mondo per non dover più essere ancorata a ricordi dolorosi. Quel cambio di scenario non poteva che renderla, se non felice, almeno un po' più serena.
    Tirò indietro la mano, per poi lasciarla ricadere lentamente lungo il fianco. Spostò gli occhi sulla Giudice, non sapendo cos'altro aspettarsi. Si era ritrovata in una dimensione in cui l'ambiente circostante variava drasticamente in un battito di ciglia, che si piegava ai pensieri e alla volontà di chi vi si trovava all'interno, insieme ad una ragazza che dichiarava di essere la sua guida. Non capiva perché si trovasse lì, in quel luogo che Zaher aveva definito la culla dei guerrieri. Era tutto così confuso. Era difficile per lei riordinare i pensieri, dar loro un senso logico.
    Fece per aprire bocca, ma la richiuse subito dopo. Come doveva rivolgersi a lei? Era un Giudice. Vostra eccellenza? Vostro onore? O era troppo formale? «Signorina Zaher» la chiamò, titubante. «Cos'accadrà, adesso?».

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