CONTEST: Cartoline dalla Terra di Nessuno

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  1. Xisil
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    Sorpresa! Sapevamo tutti che primo o poi questo giorno sarebbe arrivato. Era ora, direte voi. Doveva proprio? diranno altri.

    Giungo a voi con il mio primo (eh già), primissimo Contest, il cui tema centrale sarà, come suggerisce il titolo, l’ormai desueta corrispondenza epistolare. Una lettera, ricevuta da vostro personaggio, scritta, mai spedita, mai pervenuta. Lunghe corrispondenze epistolari o ancora una singola, unica missiva, motore di un evento o di una vicenda interessante nella vita della vostra creatura. Un tema semplice ma versatile, che spero possa quantomeno incuriosirvi.

    Le regole sono altrettanto semplici:

    1. All'interno del vostro scritto dovrà PER FORZA essere presente ALMENO una lettera, scritta e presentata nella forma adeguata ad una missiva.

    2. La corrispondenza potrà riguardare il vostro pg (primo, secondo, terzo, quello che volete) e uno o più soggetti immaginari e non che abbiano una rilevanza nella vita del vostro personaggio (pg/png, purché la cosa sia plausibile). Può partecipare anche chi non ha finito la Quest Iniziale.

    3. Come sempre, sarete voi a scegliere se considerare canon l’avvenimento presentato, e in tal caso è necessaria l’approvazione della controparte coinvolta.

    4. Rating libero, tema plausibile, solita minestra.



    Non starò ad annoiarvi con le solite formalità del tipo lunghezza, modalità di iscrizione, e tutte quelle cose che ormai sapete anche meglio di me. Le iscrizioni chiuderanno alla mezzanotte (o anche prima se dovesse venirmi sonno) di mercoledì 7 giugno.

    Premi:
    I°_ Oggetto Molto Raro
    II°_ Oggetto Raro
    III°_ Oggetto Non Comune
    (Viva la fantasia)

    Con la speranza di avervi almeno un poco incuriosito, vi aspetto numerosi.

    Titolo del contest tratto da Cartoline dalla Terra di Nessuno di Aidan Chambers


    Edited by Xisil - 31/5/2017, 15:29
     
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  2. <<Giul>>
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    Iscritta, che lo dico a fare.
     
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    Mi iscrivo ùwù/
     
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    nnnnon so se riuscirò, ma intanto mi iscrivo çwç'
     
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    vediamo come se la cava quel buzzurro di Skorr'lathyem con la corrispondenza
     
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  6. Xisil
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    Per comodità lascio aperte le iscrizioni, così che chiunque voglia possa postare il proprio lavoro, anche all'ultimo momento. Il contest verrà chiuso venerdì 7 luglio a mezzanotte.
     
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  7. Xisil
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    La scadenza del contest viene su richiesta prorogata. A breve la nuova data di chiusura.
     
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  8. Xisil
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    Mi scuso per l'assenza dovuta a cause di forza maggiore. Il contest terminerà il 15/08 a mezzanotte, spero di vedere presto qualche vostro lavoro. Dato il tempo messo a disposizione sino ad oggi avviso che non verranno concesse altre proroghe. A presto e buona giornata a tutti.
     
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    Tan tan taaaaaan. Un po' banale, ma comunque ci si prova u_u'

    a ghost I don't know


    L'ago si muoveva troppo. Vibrava come se fosse retto da una mano tremante, preda di violenti spasmi. Se fosse stato di un materiale più malleabile, ne era certa, avrebbe cominciato a contorcersi su se stesso, perdendo la sua forma e privandola di conseguenza quel poco di pazienza che le era rimasta. L'estremità del filo di cotone bianco galleggiava a pochi centimetri di distanza, oscillando verso l'altro e il basso, quanto sufficiente per rendere un'operazione semplice e basilare – quanto impegno ci voleva a inserire un filo nella cruna di un ago? - impossibile. Entrambi gli oggetti levitavano di fronte al suo viso e, a forza di guardarli, gli occhi avevano cominciato a bruciarle e la vista cominciava a tradirla, sfocando i contorni e sovrapponendo le immagini una sull'altra. Abbassava e sollevava le palpebre di continuo per tentare di mitigare quella sensazione, ma si ripresentava sempre di lì a pochi secondi. Aveva imparato ad ignorare il leggero dolore che i gomiti, appoggiati al tavolo, le davano e le mani, parallele l'una all'altra con le dita leggermente piegate in avanti, erano colte da un leggero tremore dovuto allo sforzo prolungato. Tra di esse, come retti da fili invisibili in balia di forti raffiche di vento, stavano gli oggetti del suo odio, il suo esercizio. Un'operazione basilare da compiere usando le mani, ben più complicata con la magia.
    Stava in quella stessa posizione ormai da tre ore, senza considerare che non aveva fatto altro nelle ultime due settimane, da quando aveva avuto inizio il suo apprendistato. Dopo i primi due giorni di tentativi, in cui era riuscita a far levitare l'ago senza farlo schizzare via in ogni angolo della stanza, non c'erano stati grandi miglioramenti.
    Si concesse un respiro profondo, insieme ad un ultimo tentativo. Forse il problema era che non usava potere a sufficienza e questo rendeva tutto instabile. Mosse le mani in modo di farle avvicinare l'una all'altra, centimetro dopo centimetro, con gesti il più possibile lenti e calibrati. Vide gli utensili tremare ad una frequenza maggiore, quindi provò a fare l'esatto contrario, diminuendo la quantità di magia usata. Allontanando i palmi i movimenti diventarono meno convulsi, rallentarono pian piano, sempre di più, fino a quando non caddero sulla superficie liscia e scura dello scrittoio, inermi. Il suono metallico dell'ago che impattava sul legno le sembrò la sentenza definitiva del suo fallimento.
    Lasciò ricadere le braccia sul tavolo – sentì la sottile punta di acciaio freddo pizzicarle la pelle – e gettò la testa in avanti. Sbatté più volte la fronte sui polsi incrociati, incapace di capire dove stesse sbagliato o cosa le impedisse di portare a termine un compito che, all'apparenza, le era sembrato di una semplicità quasi ridicola. La frustrazione che l'aveva accompagnata nei giorni precedenti cominciò a scemare. Quel fastidio che sentiva all'altezza dello stomaco lasciò il posto ad una sensazione di pesantezza che le opprimeva il petto mentre la rassegnazione dilagava. Avrebbe dovuto essere abituata al fallimento, ormai. La magia non faceva per lei e sarebbe stata solo una delle tante voci nella lista delle cose che non era in grado di fare. Non era la prima e non sarebbe stata l'ultima.
    «Ancora problemi?». La voce di Constance la raggiunse dalla cima delle scale. Non aveva sentito la porta aprirsi e richiudersi, se l'avesse fatto forse avrebbe avuto il tempo di farsi trovare in una situazione un po' più dignitosa, ma ormai il danno era fatto e non valeva la pena di porvi rimedio. Ascoltò il rumore del tacco basso delle sue scarpe che calpestavano ognuno dei dieci gradini che separavano il piano della sartoria dallo scantinato con una cadenza perfettamente identica a se stessa, come se avesse studiato anni come farlo nel modo più elegante e aggraziato possibile. Era qualcosa che Valerie avrebbe fatto – ed era quasi certa, conoscendola, che l'avesse fatto sul serio – ma che a Constance riusciva naturale. Lei, dal canto suo, a malapena riusciva a camminare per la strada senza inciampare sulle pietre sconnesse.
    La sentì spostarsi sulla destra, verso la parete tappezzata di ampie vetrate dalle quali entrava la luce intensa di mezzogiorno. Aveva sempre l'impulso di aprirle per favorire il cambio d'aria, per poi ricordarsi che non potevano farlo. Erano finte, così com'era falso il cielo su cui si affacciavano. Rispecchiava quello fuori dalla maison per un puro vezzo artistico di Valerie. Amava curare ogni cosa nei minimi dettagli e, con ogni probabilità, era questo che la rendeva così brava nel suo lavoro.
    Constance si mise poi accanto a lei e Ailis, di rimando, si voltò nella direzione opposta, con la guancia appoggiata contro la morbida pelle dell'avambraccio. L'unico occhio non coperto era puntato contro l'enorme libreria stipata di volumi e strane strumentazioni di cui non conosceva l'uso, ampolle ricolme di liquidi e sostanze misteriose. Non voleva guardare la ragazza, non ne aveva il coraggio. Era in imbarazzo e non sarebbe riuscita a sostenere né il suo sguardo né i suoi rimproveri. Non voleva sentirsi dire che era una femminuccia, che doveva metterci più impegno, che doveva continuare a provare fino alla morte. Sotto quell'aspetto, la giovane strega aveva molto in comune con sua zia Enya, con la differenza che Constance le voleva bene, mentre per la cacciatrice non era certa di poter dire altrettanto.
    Chissà cosa sarebbe successo. Se non riusciva a praticare la magia, cosa ne sarebbe stato di lei? L'avrebbero licenziata, probabilmente. Avrebbe perso il lavoro e avrebbe dovuto trovarne un altro, si rifiutava di continuare con l'addestramento da cacciatrice. Oppure avrebbero potuto ucciderla per assicurarsi che non rivelasse a niente a nessuno, o per evitare che le facesse scoprire anche solo per errore. L'ultima opzione le parve talmente poco plausibile che la scartò senza nemmeno prenderla in considerazione. Valerie e Constance non erano così. Rappresentavano l'esatto opposto di ciò che le avevano sempre insegnato sulle streghe – non erano perfide né crudeli e non usavano i loro poteri per fare del male a nessuno, per alterare pensieri, rovinare vite o qualunque altra cosa le avessero inculcato in testa fin dalla nascita.
    Udì un fruscio di vestiti. Da qualche parte lì vicino, Constance aveva incrociato le braccia al petto. «Lo capisco. Non è semplice come sembra». Ailis alzò la testa e ruotò il busto per poter guardare l'altra, ogni precedente remora spazzata via. Dov'erano le ramanzine? Dov'era il tono autoritario? Dov'era la Constance che conosceva?
    La strega parve inizialmente confusa ma, colta l'implicita accusa di essere impazzita o stata sostituita con una persona più gentile, sul viso le si dipinse un'espressione corrucciata, quasi offesa. Vedendola con le labbra imbronciate e la fronte aggrottata, Ailis dovette imporre ad ogni muscolo facciale di non muoversi, di non accennare nemmeno l'ombra di un sorriso o di una risata. «Che c'è?» sbottò, a suo modo imbarazzata. «Te l'ho detto, non è facile. Specie se sei tesa e spaventata».
    Avrebbe voluto risponderle che non aveva paura e non passare così per la vigliacca che era, ma sapevano entrambe che sarebbe stata una bugia. Ogni volta che pensava a cosa sarebbe successo se fossero state scoperte, ripensava al rogo cui l'avevano fatta assistere quando aveva otto, forse nove anni. In una città vicina, una ragazza era stata accusata di stregoneria da alcune sue coetanee e l'Inquisizione aveva svolto le sue indagini. Il suo clan era stato invitato ad assistere alle operazioni: era un'ottima occasione per insegnare qualcosa alle nuove generazioni. Il processo era stato una farsa, la sentenza di condanna era già stata emanata, seppur non ufficialmente, quando le autorità avevano raccolto la denuncia. Nessuna possibilità di appello, nessuna concessione di grazia. L'esecuzione si era tenuta il giorno stesso, un rogo nella piazza principale in cui era accorsa tutta la popolazione e anche qualcuno da fuori città. La ragazza era stata trascinata di peso. Puntava i piedi, scalciava, cercava di mordere e graffiare i suoi aguzzini, ma lei era una, sola, minuta, mentre loro erano tanti e più forti di lei. Mentre la legavano al palo non faceva che piangere e supplicare, ma nessuno aveva orecchie per ascoltarla o la volontà di prestarle aiuto. Quando avevano acceso il fuoco e le fiamme avevano cominciato a lambirla, aveva cominciato a gridare. Quelle urla avevano abitato i suoi sogni per settimane e per altrettanto tempo non era riuscita a liberarsi completamente dell'odore nauseabondo della carne bruciata. Non voleva fare la fine di quella poveretta. Come poteva non avere paura?
    Constance sciolse le braccia e si portò la mano destra a massaggiarsi il collo, scostando alcuni riccioli biondi dalla spalla. «Ho avuto problemi anch'io, all'inizio. Val mi aveva consigliato di...», tentennò per un istante, «scrivere qualcosa. Un diario, una lettera, quello che vuoi». Aveva pronunciato quelle parole quasi forzatamente. Non doveva considerarla un'idea molto valida. Conoscendola, probabilmente trovava imbarazzante mettere su carta i suoi pensieri e i suoi timori. Non poteva darle torto. «Nessuno lo leggerà. Rimarrà una cosa personale, potrai farne quello che vuoi. Ti aiuterà, credo».
    «A te è servito?» chiese. La domanda si era formulata da sola e le aveva dato voce senza nemmeno accorgersene. Non era riuscita ad impedirselo. Forse, anche se avesse avuto il tempo di pensarci, non l'avrebbe comunque fatto. «Ti ha aiutata a non avere paura?».
    La mano di Constance ricadde lungo il fianco con una lentezza che le parve esasperante. «No» ammise. «Però poi sono migliorata». Alzò le spalle. Il significato era chiaro: fine della questione. Niente più domande personali. «Lascia perdere quei cosi e mettiti a scrivere. Però dopo. È ora di pranzo e Val ha comprato una torta. Non vede l'ora di assaggiarla e dubito che ce ne lascerà una fetta se non ci sbrighiamo».


    Infilzò l'ago nel rocchetto di filo e li spostò distanti da lei, all'estremità opposta del tavolo, dove non avrebbe potuto urtarli o farli cadere. Allungò un po' la mano in avanti per raggiungere il più vicino dei sei cassetti che occupavano la parte superiore dello scrittoio e prese a tentoni un foglio di carta, una penna e una boccetta d'inchiostro. Lisciò la carta con entrambe le mani per spianare eventuali increspature, controllò che la stilografica fosse carica. Ogni operazione venne compiuta con voluta lentezza nel tentativo di posticipare il più possibile il momento in cui si sarebbe ritrovata faccia a faccia con quel foglio ruvido e giallognolo. Constance era stata restia nel proporre quella soluzione e capiva perché. Era insensato, imbarazzante, e non capiva come potesse aiutarla a controllarsi. Mettere per iscritto i suoi pensieri non li avrebbe riordinati, non avrebbe fatto sparire i suoi timori, non l'avrebbe resa migliore o più brava. L'inchiostro non poteva fare miracoli.
    Riaprì il cassetto con un gesto nervoso e ripose tutto al suo interno, chiudendolo con un colpo secco. Avvicinò le dita alla spola, ma senza toccarla. Lasciò che il potere fluisse attraverso i polpastrelli e la permeasse. La vide cominciare a muoversi a scatti, avanti e indietro, con solo l'ago ad impedirle di compiere una rotazione completa e rotolare via, lontano da lei. Ritrasse il braccio e quella si fermò, come se i fili che l'avevano manovrata fossero stati tranciati di netto. Le dita si ripiegarono sui palmi mentre appoggiava le mani sulla cosce, lo guardo abbassato. La frustrazione – la paura di fallire ancora - si fece strada dentro di lei, rosicchiando via poco alla volta ogni briciola di razionalità che trovava sulla sua strada.
    Non poteva andare avanti così. Non si trattava di non riuscire a fare qualcosa che le sembrava elementare, ma di non essere in grado di padroneggiare le sue capacità: quante volte nel corso degli anni aveva rischiato di essere scoperta? Quanti battiti aveva perso nel timore che qualcuno avesse notato qualcosa? Quante notte insonni aveva passato per paura che la sua stessa famiglia la giustiziasse nel sonno? E poi adesso c'erano anche Constance e Valerie, ogni suo errore si sarebbe ripercosso anche su di loro.
    Deglutì il malumore e afferrò la piccola manopola del cassetto, tirandola a sé con una certa riluttanza. Recuperò carta e penna e li dispose di nuovo davanti a sé. Mettersi a scrivere le sembrava ancora un'idea stupida, ma se poteva farla uscire da quella situazione di stallo, tanto valeva provare.


    Scrivere un diario era fuori discussione. Le avrebbe richiesto giorni, se non intere settimane. Le sembrava un procedimento troppo lungo, troppo laborioso, mentre lei voleva dare un taglio netto alla faccenda e trovare una soluzione il più possibile rapida. La scelta ricadde, in mancanza di alternative migliori, sulla lettera.
    Tentò di pensare a chi indirizzarla, ma non le veniva in mente nessuno. Spedirla era fuori discussione, però le sembrava veramente patetico iniziare con un “Caro John Doe, è da tanto che non ci sentiamo”. Valerie e Constance vennero scartate immediatamente. Passava più tempo con loro che con chiunque altro, sarebbe stato insensato. La sua famiglia – sua zia, suo padre – probabilmente non avrebbe nemmeno aperto la busta, letto il mittente. O forse suo padre sì, ma sarebbe stato imbarazzante. Non rimaneva nessuno che conoscesse.
    Nessuno che conoscesse.
    Strinse le labbra mentre la punta del pennino grattava la carta, riversando inchiostro lì dove la mano incerta di Ailis tracciava linee tremolanti e poco accurate.

    Egregia Signora Cait

    Si fermò dopo sole tre parole, indecisa su come procedere. Come avrebbe dovuto rivolgersi a lei? Signora andava bene o avrebbe preferito cacciatrice? Doveva usare il cognome da nubile come faceva zia Enya anche prima di rimanere vedova – cosa che le aveva fatto sorgere quel dubbio – oppure quello da sposata?
    Portò la mano libera a coprirsi gli occhi e si concesse un sospiro. Non poteva essersi già bloccata. Non quando sua madre era ormai polvere e non avrebbe mai letto quella lettera, quindi cosa avrebbe potuto importarle del modo in cui le avrebbe scritto? Era poco più di un fantasma. Si aggirava tra le pareti di casa sua ogni volta che qualcuno pensava di lei o ne parlava: la vedeva in ogni fotografia in bianco e nero ingiallita dal tempo; era in ogni sguardo frustrato che Enya le lanciava quando falliva in un compito che Cait sarebbe riuscita a svolgere in un batter di ciglia; era l'ombra che accompagnava sempre suo padre da che lo conosceva, quella tristezza che non riusciva a scrollarsi di dosso, quella sensazione di perdita che, nonostante i tentativi – Dio solo sapeva quante volte avesse provato -, Ailis non riusciva a colmare. Per tutta la vita si era sentita mettere a confronto con quello spettro, con quell'immagine idealizzata che tutti avevano della donna che era morta nel farla nascere. Eppure le sembrava di non conoscerla affatto.
    «Egregia Signora Cait? Dici sul serio?». Il corpo di Ailis scattò come una molla. Si chinò in avanti sullo scrittoio mentre le braccia correvano a nascondere il foglio di carta – troppo tardi, ormai – da sguardi indiscreti, col solo risultato di sporcarsi la manica sinistra con l'inchiostro non ancora asciutto. La risata di Valerie le rimbombò nelle orecchie e sentì l'imbarazzo risalirle lungo il collo in vampate di calore che le tinsero le guance esangui di un rosso vivo. Ogni parte del viso, dalla fronte al mento, era pervasa da un fastidioso pizzicore. Una mano gentile le si posò sulla testa, accarezzando distrattamente alcune ciocche di capelli. «Scusa, scusa. Non volevo prenderti in giro» disse Valerie, ma Ailis non ne era così tanto sicura. Non perdeva mai occasione di farlo, ma non ci metteva mai cattiveria. Era impossibile offendersi. «È solo che... Cait è il nome di tua madre, giusto?». La ragazza annuì. «E allora! Vuoi davvero essere formale con tua madre? Devi parlarle senza alcuna remora. Non potrà giudicarti. Nessuno può farlo».
    «Ma se l'hai appena fatto tu stessa» le fece notare in un borbottio, causando l'ilarità dell'altra. «Vero. Ma sono la tua maestra e il tuo datore di lavoro. È mio compito giudicarti, cherie».
    Valerie si sporse in avanti per prendere un altro foglio dallo scomparto, spostando quello su cui la sua allieva aveva iniziato a scrivere un po' più in là. Portò entrambe le mani sulle spalle della ragazza, appoggiando per un istante la guancia sui suoi capelli. «Alice», ormai aveva perso la speranza di farsi chiamare da lei, e da Constance, col suo vero nome, «smettila di essere così rigida, per una volta. Prenditi il tempo che ti serve. Di' tutto quello che hai da dire e non preoccuparti di nulla». La cinse in un abbraccio affettuoso che Ailis ricambiò, in modo impacciato, portando entrambe le mani su quelle di Valerie, intrecciate all'altezza del petto, poco sotto la gola. Inspirò piano e si riempì le narici del delicato profumo di rose della maggiore. Era un odore ormai familiare, che la rilassava, attenuava paure e preoccupazioni come se fossero lontani lontani.
    «Lo so che non è facile, però provaci. Va bene?». La ragazzina annuì e, come premio, Val appoggiò le labbra sui suoi capelli in un bacio affettuoso. «Brava, cherie» la lasciò con un sussurro appena udibile. Sentì l'abbraccio sciogliersi e poi il rumore secco del tacco che colpiva i gradini. La porta si aprì e si richiuse con un lento cigolio dei cardini. Lo scantinato piombò nel silenzio, senza nulla che potesse testimoniare la venuta della strega, se non la scia aromatica che aveva lasciato al suo passaggio e la sensazione di morbido calore che Ailis provava dove le sue braccia l'avevano stretta.
    Alzò le mani verso soffitto e distese i muscoli per qualche istante. Quando il suo sguardo cadde sul nuovo foglio di carta si concesse un sospiro. Era inutile tergiversare, inutile tentennare ancora. Doveva scrivere. L'avrebbe fatto.

    Cara mamma,
    sono Ailis. Non sono sicura che tu conosca il mio nome. Nessuno mi ha mai detto chi me l'ha dato, se siete stati tu e papà a sceglierlo insieme o no. Forse non vorrai saperne nulla di me, visto che se sei morta è principalmente per colpa mia, ma ho voluto almeno tentare. Credo che tu sia l'unica persona con cui possa parlare.

    Aveva appena iniziato e già si sentiva una stupida. Una stupida che scriveva ad una morta. Patetica. Si morse il labbro inferiore e tentò di ignorare quella spiacevole sensazione di disagio. “Nessuno lo saprà mai. Nessuno lo saprà mai” ripeté più volte. “Continua, non ti fermare. Nessuno leggerà mai”.

    Come stai, ovunque tu sia? Per quanto mi riguarda, non molto bene, anche se mi piacerebbe rassicurarti del contrario. Probabilmente smetterai di leggere – smetteresti, se tu potessi farlo – quando te lo dirò, ma sono una strega.

    Dovette fermarsi perché la mano le tremava al punto che la parola 'strega' risultava quasi illeggibile. Fino a quel momento non l'aveva mai detto, né scritto. Tre semplici parole che descrivevano ciò che era e che non aveva mai avuto il coraggio di pronunciare, nemmeno nella stanza più isolata, nemmeno sottovoce. Farlo avrebbe significato renderlo reale, era come urlarlo al mondo intero. Era come firmare col sangue la propria condanna a morte. Non aveva fatto altro, per anni, che negare. Mentiva a se stessa ripetendosi che non era una strega, che ogni fenomeno bizzarro che le succedeva attorno fosse frutto della sua immaginazione e del caso. Lei non c'entrava. Faceva parte di una famiglia di cacciatori, uccidevano streghe da secoli. Non poteva essere una di loro.
    E invece lo era. Lo era e, se ne rendeva conto solo in quel momento, non l'aveva ancora accettato.
    Una vocina dentro di lei la supplicò di fermarsi. Ebbe un brivido nel riconoscervi quella straziante della giovane finita al rogo anni prima. Nella sua mente si formò l'immagine della ragazza mentre piangeva lacrime nere come la pece. Non devi dire quelle cose. Devono restare un segreto, nessuno deve sapere. Nessuno deve leggere o sentire. Nessuno, nessuno nessuno, nessuno!
    Ma la penna continuava a scorrere sulla carta, strumento nelle mani di una volontà opposta, formando linee, punti, parole, intere frasi. Procedeva a rilento, tentennava, ma non rimaneva ferma per più di qualche secondo. E allora le suppliche diventavano improperi, insulti, maledizioni. Da un sussurro leggero intervallato di singhiozzi, le sue parole mutarono rapidamente in urla che, come artigli affilati, le graffiavano le orecchie. Cercavano di riempirle la testa e impedirle di andare avanti, ma le lettere si susseguivano una dopo l'altra.

    Sono una strega e questo rende tutto difficile e spaventoso. Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno a papà. Ho paura di scoprire come potrebbe reagire, o come potrebbe reagire la zia Enya. Lei mi odia perché non sono te. Non fa altro che dire quanto tu fossi brava, bella, perfetta, e come invece io sia il tuo esatto opposto. Non so combattere, non sono una brava cacciatrice, non sarò mai d'aiuto per il clan, e non riesce ad accettarlo. Papà, invece, mi guarda ma non vede me, solo il tuo fantasma. Non so come fosse, prima, ma sono certa che da quando sei morta sia diventato l'ombra di se stesso. Ti amava veramente tanto. Mi vuole bene perché ti somiglio, ma non riesce a volermene abbastanza perché ti ho strappata a lui, perché io sono viva e tu no.
    Come puoi intuire, le premesse non sono delle migliori. Se dicessi loro la verità, credo che zia Enya vorrebbe accendere personalmente la mia pira. Papà non lo so, e mi va bene così. Non voglio davvero saperlo. Non sono una persona così coraggiosa, mi dispiace. Forse anche tu saresti stata delusa di avere una figlia come me. Però, lascia che ti dica che è orribile avere paura delle persone che dovrebbero amarti. E lo è anche mentire loro giorno dopo giorno.
    Mi chiedo se fosse così anche per te. Valerie – la strega che mi sta aiutando – mi ha detto che spesso la magia si tramanda di madre in figlia. Forse anche tu lo eri e sei diventata una brava cacciatrice per dissimularlo. Mentivi a tutti, come faccio io? O qualcuno lo sapeva? Nessuno mi ha raccontato mai nulla di te. Dicono soltanto che eri brillante, capace, semplicemente perfetta – e quanto io sia il tuo opposto. Parlare di te in termini diversi sembra quasi un tabù. Credo che la tua perdita abbia lasciato una ferita troppo profonda e che la mia sola presenza non riesca a guarirla. Forse mi odiano, forse no. Ma a loro sembra non importare nulla di ciò che sono, né di ciò che vorrei essere. L'unica cosa che conta è che non sono come loro vogliono che io sia. E, credo, mi vorrebbero tutti a tua immagine e somiglianza. Non mento quando dico che mi dispiace deludere le loro aspettative. Mi dispiace deludere anche te. Ma prima o poi dovrete accettarlo: non sono quella che vorreste. Non lo sarò mai.
    E poi, cosa c'è di sbagliato nell'essere una strega? Si nasce così, non c'è una scelta, né la possibilità di cambiare o smettere. È qualcosa che ti accompagna ad ogni passo, permea ogni respiro, vive con te e ti fa crescere. Perché condannarci?
    Sono stanca, mamma. Di nascondermi, di fuggire e di mentire. Sono stanca e non so per quanto tempo riuscirò a reggere questa situazione. Ma sai cosa ti dico? A me la magia piace. Non so ancora controllarla, ma mi piace. Ci sono infinite cose da imparare e da scoprire ed è tutto così meraviglioso che l'operato dell'Inquisizione e dei clan di cacciatori come il nostro mi sembra sempre più dettato da superstizione e pregiudizi.
    La verità è che ho paura. Non voglio vivere col continuo timore di essere scoperta. Non voglio morire per qualcosa che amo e che non dipende da me. Non voglio scoprire cosa potrei fare, se messa alle spalle al muro, per salvami.

    Due leggeri colpi alla porta la spinsero ad alzare la testa dal foglio. Si rese conto solo in quel momento di avere gli occhi stanchi e che, oltre il vetro delle finestre, il sole stava cominciando a calare. Appoggiò la penna sul tavolo e si massaggiò le palpebre abbassate con pollice e indice mentre si voltava.
    «Tra poco chiudiamo». La testa bionda di Constance fece capolino dalla porta socchiusa. «Ti manca ancora molto?».
    Ailis scosse la testa. «No. Ho quasi fatto. Non vi farò tardare». Vide l'altra alzare gli occhi al cielo, come a dire che non le importava affatto. «Puoi restare qua anche tutta la notte, e lo sai. Per noi non è un problema». Si ritrasse e chiuse la porta, lasciando Ailis con un sorriso appena accennato ad incurvarle le labbra.
    Appoggiate le mani sul bordo del tavolo, spinse la sedia indietro e si alzò. Sentiva le gambe intorpidite e dovette muovere qualche passo incerto lungo la stanza prima di riacquistare una discreta mobilità. Si avvicinò agli scaffali e prese candele e fiammiferi, poi tornò al suo posto. Le fiammelle accese donarono alla carta un colore più caldo e morbido, insieme ad una sensazione di placido benessere. Aprì e chiuse un paio di volte la mano destra. Le chiedeva pietà, un po' di riposo, ma non aveva ancora finito. Mancava poco, ormai.

    Cara mamma, non so nulla di te, ma dopo questa lettera spero tu possa dire di conoscere me un po' meglio. Non so se mi avresti voluto bene, non so se te ne avrei voluto io. Dopo questa lettera che non leggerai mai, mi sembra di vederti per la prima volta come una persona reale, e non come un'entità perfetta e irraggiungibile.
    A questo punto credo di non avere altro da dirti. Spero non sia stato un problema, per te, essere la destinataria di questa lettera. Credo sia arrivato il momento dei saluti. Non so se ti scriverò ancora e di certo tu non mi risponderai mai. Ma sarebbe stato bello.

    Grazie di tutto,

    Ailis


    Mise il tappo alla penna e la ripose nel cassetto insieme all'inchiostro. Non rilesse nemmeno una parola, sapeva cos'aveva scritto, e ripiegò la lettera in tre parti uguali con assoluta precisione. La inserì in una busta di carta, inumidì la parte collosa e la richiuse. Scrisse il proprio nome e quello di sua madre. Mancava il francobollo, ma non credeva ce ne fosse bisogno.
    Le fiamme delle candele danzavano mollemente, la cera colava in piccole gocce che si cristallizzavano a contatto col metallo freddo. Il fuoco lambì la carta non appena l'angolo della busta raggiunse lo stoppino. Lasciò la lettera che bruciò rapidamente, sospesa in aria. Sottili volute di fumo si sollevarono e s'infransero sul soffitto, i pochi resti carbonizzati caddero sul pavimento leggeri come piume.
    Ailis sentì che dei nodi dentro di lei si erano sciolti, che parte della tensione si era allentata, che si sentiva bene. Per la prima volta si mise a piangere senza sentirsi triste.


    Si era svegliata di buon'ora ed era partita di casa in anticipo. Al suo arrivo, Val e Constance stavano ancora facendo colazione e, dopo aver mangiato qualcosa insieme a loro, era scesa nello scantinato. Prese posto sulla sedia, sfilò l'ago dal rocchetto e srotolò una buona porzione di filo. Si mise in posizione, le mani aperte che incombevano sugli oggetti. La magia li avvolse e si sollevarono in aria.
    Tremavano, come colpiti da raffiche di vento che esistevano solo per loro. Ailis chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. Non doveva agitarsi. Non doveva fare le cose di fretta. Non doveva pensare a nient'altro. Sollevò le palpebre. La sottile asta di metallo galleggiava, perfettamente immobile. La guardò incredula e deglutì. Il sottile filo di cotone si mosse nella sua direzione. Una, due, tre volte. Al quarto tentativo scivolò nella cruna. L'estremità si intrecciò su se stessa per formare un nodo.
    «Bene» esordì Valerie a metà scalinata, con Constance in cima che sbocconcellava un panino. «Adesso possiamo andare avanti. La parte noiosa dell'apprendistato è finita».
    Constance aveva ragione. Scrivere non aveva fatto passare la paura. Era ancora lì, vivida e reale come il giorno prima, e come lo sarebbe stata l'indomani, il giorno dopo e quello dopo ancora, ma sentiva di poter convivere con lei senza lasciarsi sopraffare.
    Lanciò un'occhiata alle tracce di cenere lasciate dalla sua lettera e sorrise. «Grazie».



    Ps: una volta ho sentito dire che gli spiriti dei nostri cari defunti ci stanno sempre accanto, e che se ci concentriamo, possiamo sentirli. Io non ho mai provato nulla di simile, quindi... se davvero mi sei vicina e se mi vuoi bene, potresti provare a farti sentire un po' più forte?

     
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    -Calendae-




    AkzzmXw





    Per Anemone, lettera privata.
    Castello Disney, anno 747.
    Cinque Giugno.

    Cara Anemone,

    Come procede la riunione? Ho ricevuto le fotografie del Castello Disney e non puoi immaginare quanto sono invidiosa, il giardino è davvero stupendo. Dovremmo imparare anche noi a sagomare le siepi così, credo che ravviverebbero i giardini esterni del palazzo e renderebbero la facciata meno austera. Confido nel fatto che ne riparleremo una volta che sarai ritornata dal viaggio, magari davanti ad una tazza di tè.
    In ogni caso, spero vivamente che tu stia bene e che il sole batta forte anche nel mondo in cui ti trovi. Scusami per non averti scritto negli ultimi tre giorni, ma qui a palazzo c’è molto da fare e non ho avuto un solo momento libero. La Festa dell'Estate si avvicina e purtroppo come ogni volta ho un sacco di problemi a scrivere il discorso d’apertura. Ho compiuto quattordici anni, le cose da dire sono ogni anno sempre di più e temo sempre di non essere all’altezza, di perdere la preziosissima fiducia che i tutti ripongono in me. Sai, ora che sono sola, senza i tuoi validi consigli ed il tuo ineguagliabile supporto morale, sento più che mai di essere ancora troppo giovane ed inesperta per accogliere la corona.
    Ma non parliamo di questo, dopotutto sono discorsi che conosci a memoria, oramai. Ti scrivo piuttosto per informarti che stamattina sono andata al Vivaio su richiesta del Capo Giardiniere. Sì, hai letto bene, ho finalmente deciso di varcare da sola i confini della capitale.
    Sicuramente in questo momento ti starai chiedendo come mai ciò sia accaduto e la risposta è molto semplice: al mio posto saresti dovuta andare tu. La lettera arrivata a palazzo richiedeva la tua presenza, ma dato che si trattava di un semplice malfunzionamento dell’impianto di depurazione del Vivaio mi sono umilmente permessa di andare al tuo posto e di pensarci io stessa. Come immaginavo, la mia magia si è rivelata sufficiente per risolvere il problema.
    Il Vivaio è incredibile, non mi stupisco che la qualità dei nostri soldati sia così alta; ho approfittato dell’occasione per visitarlo e non avrei mai immaginato che fosse così ampio e ben organizzato. So bene che gite di questo tipo non sono certo il modo migliore di impiegare il mio tempo a meno di due settimane dalla Festa dell'Estate, ma il Capo Giardiniere ha insistito molto per farmi da guida e non sono riuscita a dire di no.
    Per prime, mi ha mostrato le Celle Incubatrici. Sono distribuite in sette sale ed occupano gran parte dell’edificio, ma solo le levatrici hanno il permesso di avvicinarsi per controllare lo stato dei nascituri. Le donne prescelte partoriscono nel giro di sei mesi, il piccolo viene immediatamente incubato e per quattro anni e riceverà nutrimento costante affinché cresca sano e forte. Ho sbirciato da un oblò l’ultima sala, la più piccola: cellette pulsanti ovunque, su ogni parete e da ognuna di esse presto sarebbe nato uno splendido fiore pronto a servire la sua principessa.
    Dopo le Celle ho visto l’Asilo, interamente gestito da educatrici e dai soldati veterani più meritevoli. È qui che i germogli vivranno sino ai dieci anni e lo faranno al solo scopo di imparare i rudimenti del combattimento corpo a corpo ed a maneggiare diversi tipi di armi in base alla predisposizione personale. Purtroppo, anche in questo caso non mi è stato possibile interagire con qualcuno poiché era ora di allenamenti e non sono tollerate distrazioni di alcun tipo. Sono rimasta in disparte, di nuovo costretta a servirmi di uno degli oblò presenti nel corridoio per poter assistere a ciò che stava accadendo: due ragazzini, il più grande avrà avuto otto anni, stavano combattendo l’uno contro l’altro a colpi di spada. Quando è stato chiamato il cambio, uno di loro è venuto verso di noi con gli occhi fissi al suolo ed un’ampia ferita da taglio che gli segnava una spalla. Si è seduto su una panchina senza fiatare e si è messo ad osservare concentrato il nuovo combattimento senza un accenno di lamentela, senza curarsi minimamente del sangue verde che gli impregnava la pettorina di cuoio. Stando al Capo Giardiniere, lui è uno dei più promittenti di quest’annata.
    Se per i maschi il destino è il sangue e la terra battuta, le femmine vengono invece affidate alle vestali che supervisionano il Tempio. Qui imparano i rudimenti della magia e mentre le più talentuose proseguono gli studi sino alla maggiore età, le altre vengono declassate a levatrici, cuoche o educatrici. Il resto del Vivaio è totalmente adibito al mantenimento dei soldati, dalla Mensa ed i vari Dormitori sino all’Arena, a cui accedono solo i migliori e che permette loro di perfezionare ulteriormente l’arte del combattimento. Ho cercato di ottimizzare il mio tempo per vedere il più possibile e nel complesso sono molto soddisfatta di aver ampliato le mie conoscenze sul nostro sistema militare.
    Comunque, c’è un’altra cosa che ti devo riferire assolutamente. Al termine della visita, il Capo Giardiniere ha insistito per farmi un dono. Non so ancora di cosa si tratta, mi sarà recapitato domani, ma di qualsiasi cosa si tratti prometto che ti terrò aggiornata.
    Ci risentiamo presto, attendo tue notizie.

    Inchino,

    Myo.


    AkzzmXw





    Per Anemone, lettera privata.
    Castello Disney, anno 747.
    Undici Giugno.

    Cara Anemone,

    Ti ringrazio per la risposta veloce e per non essere stata troppo severa in merito alla mia decisione di andare al Vivaio al posto tuo. So che ti sei trattenuta, che mi vuoi bene e che proprio per questo raramente mi rimproveri, ma ho capito di essere stata davvero troppo avventata e dunque ti chiedo immensamente scusa, non succederà più.
    Comunque, come ti ho anticipato nella scorsa lettera, ho ricevuto un dono dal Vivaio. È arrivato puntualissimo, in uno spazioso cesto di vimini che i soldati inviati a palazzo hanno immediatamente portato nella mia camera su mio ordine: mezzo coperto da sporadici muschi profumati, nel cestino c’era un germoglio di uomo, una bellissima creatura dagli assonnati occhi cerulei. Oltre al dono vi era anche un’accurata pergamena informativa, scritta di pugno dalla levatrice, che mi informava che la creatura ha otto anni e due mesi, è sana e sa parlare, leggere e scrivere in totale autonomia. Quando l’ho visto per la prima volta ho pensato immediatamente alle calendule perché i suoi capelli sono d’un arancione vividissimo e se ci passo le dita in mezzo, intravedo qualche piacevole riflesso bianco. L’ho chiamato Galeo e come nome sembra piacergli molto.
    Appena ho tolto il nastro dalla cesta Galeo si è stropicciato gli occhi, è uscito e si è gettato a terra azzardando un inchino goffo, rovinato dalle gambe tremolanti per l’emozione e per il lungo viaggio in posizione scomoda. Gli ho subito offerto di sedersi sul mio letto ed ho perso il conto di quanti bicchieri d’acqua abbia trangugiato mentre mi raccontava la sua storia. Ha una voce dolce e delicata, è ancora lontano dall’età adulta. Ci sono voluti tre, quattro giorni per riuscire ad entrare del tutto in confidenza con lui, ma ne è valsa la pena; dovresti vederlo ora, ogni mattina mi sveglia con un sorriso più bello del sole ed ogni sera mi augura la buonanotte con la stessa luce in volto.
    Come me, Galeo sa usare la magia. Purtroppo non ha raggiunto il livello sufficiente per avanzare dalla Scuola all’Arena, ma il suo spiccato talento ha spinto i veterani a cederlo alle vestali in via del tutto straordinaria. È infine giunto a me per merito di quella che è indubbiamente la sua qualità più evidente, ovvero l’indicibile perfezione del suo viso angelico. Credimi, Anemone, non sto affatto esagerando: il taglio a mandorla degli occhi, il naso perfettamente sagomato, la bocca piena e lucida, gli zigomi alti, tutto di lui è bello da togliere il fiato. Ho già provveduto a scrivere al Capo Giardiniere per ringraziarlo del dono, sono certo che quando lo vedrai ne sarai altrettanto soddisfatta.
    D’ora in poi, Galeo vivrà e crescerà con me in qualità di paggio della principessa. Sono onorata, mai avrei creduto di ricevere in dono addirittura un piccolo uomo e sono certa che rallegrerà notevolmente le mie giornate, a cominciare da questo delicato periodo dell’anno. Ho già parlato con i cuochi di palazzo ed ogni mattina oltre al mio consueto pasto mi fanno trovare anche la frutta e la verdura sufficienti a nutrirlo come si deve. La sarta si occupa dei suoi vestiti ed ho persino convinto il mio maestro privato ad occuparsi della sua istruzione già discretamente solida per l'età che ha. Non nego che ci siano state titubanze perché Galeo è solo un soldato scartato e la sua vita pesa meno dei viveri che richiedo per allevarlo, ma proprio non me la sento di farlo campare solo con luce ed acqua. È ormai con me da due settimane e mi sono davvero, davvero affezionata a lui.
    Che altro raccontarti? Ah, giusto, che a Galeo piace moltissimo il mio silenzio. Quando chiacchieriamo, spesso gioca spensierato con le mie lettere ed al momento di plasmare la nuova frase si sciacqua il volto con le lettere vecchie per scacciare la calura pomeridiana. Mi piace stare con lui nei giardini, vicino alla fontana, ascoltando il battito incessante del suo giovane cuore che è così tanto simile al mio. Spesso lo lavo proprio lì, nello specchio per le colombe; mi ci è voluto un po’ per convincerlo a farsi lavare perché il suo corpo è pieno di cicatrici e di questo si vergogna molto, ma infine ci sono riuscita. Voglio prendermi cura di lui al meglio delle mie possibilità ed offrirgli la vita più bella a cui un soldato potrebbe mai aspirare.
    Aldilà del rapporto che si è instaurato tra me e Galeo, devo inoltre ammettere che avere un paggio si sta rivelando assai utile per le mie mansioni giornaliere: in caso di bisogno posso comunicare attraverso la sua voce, mandarlo a palazzo o dovunque io voglia in città per recapitare messaggi a mio nome. Mi aiuta anche a mantenere in ordine i documenti privati e talvolta ci concediamo persino qualche scambio di incantesimi visto che con l’Acqua è bravo quasi quanto me.
    Ma Galeo non è solo dolce ed educato.È anche saggio, paziente ed incredibilmente abile con le parole, doti rare per un germoglio ancora così giovane. Grazie ai suoi insostituibili consigli in fase di stesura, il discorso per la Festa dell'Estate sta procedendo benissimo e confido di terminarlo in tempo e di fare un’ottima figura. Naturalmente sarà proprio Galeo a declamarlo al popolo per mio conto ed è proprio per questo che sono così sicura di me. È davvero un peccato che tu non possa esserci e non vedo l’ora che termini l’estate per vederti tornare a palazzo.
    Purtroppo i miei prossimi giorni saranno davvero pesanti, per cui non ti assicuro di riuscire a riscriverti prima della festa. In ogni caso, ti auguro buon lavoro e mal che vada ci risentiremo tra una settimana.

    Inchino,

    Myo.


    AkzzmXw





    Per Anemone, lettera privata.
    Castello Disney, anno 747.
    Venti Giugno.

    Cara Anemone,

    Come stai? Non ho ricevuto alcuna risposta alla mia ultima lettera, ma immagino che anche tu sia stata immensamente impegnata in questo periodo. Ho deciso comunque di riscriverti perché le celebrazioni sono infine terminate e ci tenevo a metterti al corrente dell’accaduto di persona.
    Non penso di peccare di superbia nel dirti che è stata la miglior Festa dell'Estate a cui io abbia mai partecipato. Il discorso è piaciuto moltissimo, io sono felice come raramente ricordo di essere stata in passato ed è tutto merito del mio meraviglioso Galeo.
    Dovevi vederlo, impettito davanti a me sul palchetto della piazza, avvolto in una tunica azzurra di seta divinamente accostata all’arancio dei suoi capelli; di fronte a noi c’erano molti soldati, ma in confronto lui sembrava un nobile a tutti gli effetti. Appena ha dischiuso le labbra la timidezza è sparita e non ha nemmeno avuto bisogno di rileggersi gli appunti che teneva in mano su mio consiglio. Da lì in poi, ogni mia più rosea aspettativa è stata di gran lunga superata: ha ringraziato la Madre Terra ed il Padre Sole con la giusta solennità, ma senza mai sminuire la rassicurante delicatezza della sua voce ed allo stesso tempo perdere la giusta postura. Gli occhi del popolo erano tutti su di lui e nessuno ha fiatato o si è mosso per tutta la durata del discorso, proprio come se un incantesimo avesse paralizzato per quei pochi, ma densi minuti l’intero mondo. Mi sono unita all’applauso finale senza nemmeno pensarci due volte e l’ho abbracciato forte, davanti a tutti, baciandogli il viso e ringraziando a mia volta gli Dei per l’indimenticabile estate che mi hanno regalato.
    Ho preso la mia decisione, Anemone: lui e solo lui sarà il padre dei miei figli e desidero condividere con lui parte dei miei privilegi di futura regina. Farò richiesta ufficiale al Vivaio, così Galeo potrà vivere con me senza più il peso dell’etichetta di soldato semplice e sarà rispettato da tutti come è giusto che sia per un fanciullo del suo talento.
    So che è una notizia improvvisa e che di nuovo mi sto dimostrando avventata, ma una creatura del genere non può e non deve passare inosservata. Come già detto, sono certa che lo approverai anche tu.
    Attendo una tua risposta.

    Inchino,

    Myo.


    AkzzmXw





    Per Anemone, lettera privata.
    Castello Disney, anno 747.
    Primo Luglio.

    Inizio ad essere davvero preoccupata, è quasi un mese che non rispondi alle mie lettere. Ti pregherei di informarmi entro cinque giorni sul tuo stato, altrimenti sarò costretta ad inviare delle truppe al Castello Disney.
    Ho assolutamente bisogno di sentirti anche per un altro e non meno importante motivo: da qualche giorno a questa parte Galeo ha iniziato a zoppicare. L’ho fatto prontamente visitare dal mio medico, ma non ho ancora ricevuto il referto e le ultime volte che sono andata nel suo studio, mi hanno riferito che era assente per un’emergenza. Galeo mi rassicura ogni giorno dicendo che non è la prima volta che gli capita e che sarà colpa di qualche vecchia ferita da allenamento, ma vederlo costretto ad usare delle stampelle mi addolora tantissimo. Per il resto almeno mangia e beve regolarmente e la gamba che gli dà problemi non pare fargli male.
    Ho davvero bisogno di notizie, non solo per la tua incolumità, ma anche per quella del mio germoglio. Questa lettera ti sarà recapitata via incantesimo, per cui ho la certezza assoluta che la riceverai. Scrivimi presto, sono davvero in pensiero.

    Myo.


    AkzzmXw







    Per Anemone, lettera privata.
    Castello Disney, anno 747.
    Dodici Luglio.

    Galeo si è ammalato di Quel male e so che già lo sai, il medico mi ha confessato che te l’ha comunicato il giorno dopo la prima visita. La gamba destra è andata, potrei piantarci dentro un coltello e Galeo non sentirebbe assolutamente nulla. La sinistra ha ancora un minimo di sensibilità, ma è questione di ore ed anche quella si ridurrà ad un inutile ammasso di carne pietrificata. Il medico ha stimato all’incirca due giorni di vita rimanenti e mi ha a malapena concesso di poter farlo dormire comunque in camera con me.
    So che a palazzo sono tutti preoccupati per me, che non tocco cibo da chissà quanto e che ho fatto crescere delle piante per sbarrare la porta della mia camera. Lo so e non me ne importa nulla, perché tutti sapevano e nessuno mi ha informata, perché Galeo sta morendo e nessuno si cura di salvarlo.
    Io so bene cosa sta succedendo, Anemone. So che il Capo Giardiniere è stato perentorio, che è importante mantenerci in ottimi rapporti con il Vivaio e che per questo sei d’accordo con lui. So che per salvare me sono serviti soldi, magie di livello altissimo, tempo e tante risorse tolte dalla bocca di molti soldati e che ciò è stato fatto unicamente perché io sono la principessa. Ma è proprio in qualità di principessa che io ora ti supplico, mia cara Anemone, e lo faccio in nome della mia defunta madre e della nostra amicizia: salva il mio Galeo. È solo un germoglio di uomo nato nel Vivaio, un soldato fallito che mai vedrà un campo di battaglia, ma è diventato la persona più importante della mia vita ed ho bisogno di averlo accanto a me. Lui è il mio sole e la mia luna, è la voce che gli Dei mi hanno tolto e gentilmente restituito in dono, è la mia splendida calendula.
    Solo per questa volta, ti prego, fai un’eccezione.

    Te ne sarò eternamente grata.

    Myo.


    AkzzmXw






    Per Anemone, lettera privata.
    Castello Disney, anno 747.
    Venti Luglio.

    Cara Anemone,

    Perdonami se non ti ho più scritto, ma ad ogni passo che muovo sento il tintinnare dei cocci di quello che pochi giorni fa era il mio cuore. Non sono lucida, ho per poco evitato di emanare diverse condanne a morte dettatemi dall’ira e dallo sconforto e nemmeno l’Acqua mi è amica in questo momento.
    Come avrai notato, ti ho rimandato indietro il certificato di nuova adozione che hai allegato alla lettera di settimana scorsa. Questo perché non voglio mai più fare affidamento su un altro germoglio di uomo.
    Galeo è morto senza emettere un fiato, sul mio letto che ancora odora di morte: prima che potesse terminare il lungo discorso di ringraziamento che mi ha fatto quella notte, la paralisi gli ha raggiunto il cuore e se l’è portato via senza nemmeno degnarmi di uno sguardo, esattamente come avete fatto tutti voi. Sono giorni ormai che dormo in balcone, con la sua cesta stretta al petto ed il ricordo dell’odore buono dei suoi capelli che mi solletica il naso mentre sogno ad occhi aperti. Il cibo ha perso sapore, il sole non mi scalda più la pelle e non riesco nemmeno a vedere nitido tante sono le lacrime che piango ogni giorno con dolore.
    La sua vita non vale la tua, così mi hai scritto nell’ultima lettera. Non sai quante volte mi ripeto ogni giorno i tuoi importanti insegnamenti, che io sono la principessa erede al trono, ma che devo ancora imparare a distinguere il reale peso di una vita diversa dalla mia. Mi hai anche detto che questo è il ciclo della vita, che talvolta i fiori deboli vengono recisi o muoiono per cedere il posto ad esemplari più resistenti. Galeo però non è stato giudicato debole per la mancanza di pregi, ma solo ed esclusivamente perché è un soldato e più cerco di ragionare come fai tu, più soffro nel constatare che se sul suo capo ci fosse stata una corona, allora gli sforzi per salvarlo sarebbero stati infinitamente più concreti rispetto a quello che sono stati in realtà. Avete scelto di uccidere un fiore forte e saggio solo perché nato in un Vivaio e non in un palazzo: se è questo il ciclo della vita, allora forse sarebbe il caso di riconsiderare la benevolenza dei nostri Dei.
    Servirà molto tè per parlare faccia a faccia di tutto ciò che è capitato dall’inizio del mese ad oggi e confido nel fatto che non ti tirerai certo indietro come invece stanno facendo il medico ed il Capo Giardiniere. Ti avverto che ho tagliato più di un metro di capelli e che potresti a stento riconoscermi: dovevo farlo, avevo bisogno di cambiare e di lasciarmi alle spalle molte convinzioni che oramai non mi appartengono più.
    Attendo con ansia il tuo ritorno.

    Inchino,

    Myo.

    Post Scriptum: mi hai domandato se desidero un dono. So che al Castello Disney c’è un giardino meraviglioso, per cui mi piacerebbe avere dei fiori. Qualcosa di unico, che ravvivi il triste grigiore di una piccola lapide che ho piantato fuori dal palazzo, vicino alla fontana. Delle calendule, magari.


    AkzzmXw




    Domando scusa per aver fatto slittare la data di chiusura del contest fino a Ferragosto e mi auguro che il lavoro(ne) sia gradevole.
    Angoletto saputello: le calendule fioriscono una volta sola al mese durante tutta l'estate. Non a caso il loro nome deriva dai Calende, i primi giorni di ogni mese latino.


    Edited by <<Giul>> - 16/8/2017, 14:59
     
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    L'uomo dalla pelle bruna stava ispezionando i corridoi della base. Ancora non credeva ai suoi occhi, i passi da gigante che quel gruppo aveva fatto erano sbalorditivi; ciò che era iniziato come un utopico progetto suo e di Azrael aveva preso piede con una velocità disarmante. Distratto, i suoi piedi l'avevano portato al piano dove c'erano i primi operativi che si erano uniti: dato che ormai era lì, avrebbe anticipato la visita a sorpresa agli alloggi. Freddi rapporti vergati nero su bianco che recitavano "la situazione nelle baracche è ottimale" lo interessavano marginalmente; doveva vedere coi propri occhi e giudicare lui stesso.
    Si fermò a un paio di passi da una porta, una tessera bianca che recitava "Skorr'lathyem". Sospirò, afferrandosi il ponte del naso. Quell'uomo era l'unica parte dell'organizzazione che non aveva ancora ben inquadrato. Era un'ottima risorsa o un potenziale pericolo; o entrambi.
    Un boato improvviso fece scattare all'indietro Khan, facendogli urtare la spalla contro il muro alle proprie spalle: dalla stanza, ora priva di una porta, emerse una figura imponente, alta quasi quanto lui. Un liquido scuro e viscoso colava da in mezzo alla fronte dell'uomo che si stagliava, urlando, di fronte all'Immortale. I vestiti, di solito solo abbastanza logori e sporchi, pendevano in pezzi sui suoi muscoli, mentre schizzi di saliva esplodevano dalla bocca, ancora piegata in un urlo inumano; prima che Khan potesse anche solo comprendere la situazione, Skorr'lathyem prese da terra la porta divelta, scagliandola con forza verso l'interno della stanza, causando un fracasso infernale.
    «Skorr, dannazione!» ripresosi dallo shock improvviso, Khan cominciò a urlare in direzione dell'altro.
    Skorr'lathyem si girò violentemente verso il proprio superiore.
    «Levati dalle palle, o la prossima volta scardino te invece della porta.» la voce di Skorr'lathyem era addirittura più bestiale di quando si trasformava; schiarendosi la gola, Khan porse la mano destra per afferrare la spalla dell'altro.
    Skorr'lathyem si scansò e cercò di colpirlo con un pugno; Khan non si degnò neanche di spostarsi, tanto era instabile l'altro. A Khan parve quasi che non fosse un pugno quello che si era appoggiato al suo sterno, bensì una mosca.
    Osservandolo ora da più vicino, l'uomo dalla pelle brunastra cominciò a notare alcune stranezze: dai lati della bocca dell'altro colava una quantità innaturale di saliva, piccoli movimenti, simili a tic nervosi, attraversavano il corpo intero, copiosamente ricoperto di sudore.
    «Skorr, ora ti calmi e mi-» le parole di Khan vennero bruscamente interrotte da Skorr'lathyem; sfruttando tutto il proprio peso, il sottoposto lo spintonò via, caracollando poi nella direzione opposta.
    Nell'attimo che ci volle a Khan per riprendere l'equilibrio, l'invasato prese a correre lungo il corridoio, occasionalmente sbandando, come se facesse fatica a mantenersi in piedi. L'essersi fatto prendere così in contropiede da un proprio sottoposto fece affiorare un sentimento simile alla vergogna dal suo animo.
    La situazione era, però, strana.
    Si fermò a guardare la direzione in cui era scappato l'uomo; strisce nerastre sbavate tracciavano, come la proverbiale scia di briciole, il percorso che aveva preso. La presenza di macchie sia sul muro destro che su quello sinistro confermarono l'impressione iniziale di Khan, ovverosia che Skorr'lathyme stesse barcollando.
    Doveva inseguirlo?
    La base era vuota se non per loro due e una manciata di altre reclute di cui aveva confermato la posizione prima durante il giro di controllo. Su di un tastierino numerico che sbucava dal muro a pochi centimetri, Khan digitò il proprio codice estraendo un microfono.
    «A tutte le reclute: fino a nuovo ordine» cercò di rendere il proprio tono il più autoritario possibile «restate nei vostri alloggi. Non è un'esercitazione, ripeto, non è un'esercitazione.»
    Questo sarebbe dovuto bastare, o almeno sperava: tutta quella situazione non gli piaceva. Certo, aveva visto spesso Skorr'lathyem avere esplosioni di rabbia tali da arrivare a ferire sé stesso ed altri, ma questo era qualcosa di molto peggio rispetto al solito.
    Doveva trovare la miccia che lo aveva fatto esplodere.
    Con cautela, entrò nella stanza, evitando pezzi di mobili e cocci vari; la brandina era spaccata in due, con macchie nere che imbrattavano sia il materasso che il telaio in metallo; lo specchio appeso sul muro sopra la scrivania era stato frantumato, spiegando il perché il terreno fosse un dedalo di schegge di vetro. Vicino alla scrivania, incrinata e intera solo per intercessione divina, Khan notò qualcosa.

    Quella stessa mattina.

    Lo sguardo inquisitore della donna dall'altro lato della scrivania lo stava stilettando con violenza; ancora si chiedeva come facesse ogni volta a infilarsi in situazioni così del cazzo.
    Nella mente di Skorr'lathyem si susseguirono immagini del capo che, quasi scardinando la porta della sua stanza, irrompeva a passo di carica, chioma fucsia a punteggiare l'ancheggiare estremamente femminile del suo corpo muscoloso, urlando qualcosa sulla falsariga di «Ora basta, Skorr, tu hai bisogno di aiuto professionale, e ne hai bisogno immediatamente!»
    Già, ecco come.
    Cercò di sistemarsi un attimo meglio nella sedia: non capiva come mai, ma le sedie negli uffici erano sempre scomode. Non che fosse entrato in chissà quanti uffici, giusto in quello di Azrael e Khan e in svariati uffici disciplinari, ma la scomodità delle sedie era un minimo comune denominatore.
    «Dunque,» per quanto fosse soffusa e, in un certo qual modo, accogliente, la voce della strizzacervelli richiamò Skorr'lathyem all'ordine «mi faccia prendere la sua cartella, signor Lathyem.»
    L'altra si piegò un attimo verso sinistra, aprendo uno dei cassetti della piccola scrivania color mogano; Skorr'latyhem sfruttò l'occasione per rimirare di nuovo la figura della dottoressa Barlowe. Aveva una chioma di capelli ondulati, dai riflessi ramati che, a seconda della luce, sembravano più castani o più rossi, che le incorniciava scrosciante il viso, abbastanza pallido, attraversato qua e là da minute rughe d'espressione che non facevano altro che sottolineare la scintilla indagatrice degli occhi color acquamarina; il tailleur nero, chiuso da un unico bottone, lasciava intendere un corpo tonico e dalle forme piene. Oltre la camicetta bianca che indossava sotto il tailleur, a Skorr'lathyem parve d'intravedere un reggiseno nero, purtroppo non di pizzo. Avendo portato la sedia di qualche centimetro più indietro quando si era seduto, Skorr'lathyem poté appoggiarsi allo schienale, facendo scivolare lo sguardo sotto la scrivania, la quale non era chiusa davanti. Da sotto una gonna nera delle medesima fattura del tailleur sbucavano le gambe accavallate della strizzacervelli, avvolte da calze a maglie finissime, leggermente opache; dei tacchi a spillo con décolleté le cingevano i piedi, lasciando in piena mostra la loro forma elegante e minuta, con dita corte e unghie perfettamente curate; nel vacuo cosmico della mente di Skorr'lathyem passò, come una cometa, un pensiero riguardo all'odore e al sapore di quei piedi; cercò di scacciarlo, per ora. Un improvviso movimento della donna fece scivolare in alto la gonna, mostrando per quello che a Skorr'lathyem parve meno di un battito di palpebre, una giarrettiera nera fissata alla banda autoreggente delle calze.
    «Allora,» quella parola venne punteggiata dal rumore di un plico di fogli che veniva fatto cadere sulla scrivania «mi parli di lei, signor Lathyem.»
    L'uomo alzò lo sguardo; avvertì una zaffata del profumo della donna, acidule note di bergamotto che gli stavano titillando la fantasia con idilliche scene della dottoressa coperta solamente di petali.
    «Nah, non ho voglia.» in fondo, aveva accettato quella farsa solo dopo aver visto l'aspetto della dottoressa Barlowe, mica per altri motivi «Tanto c'è già tutto scritto nella magica cartelletta che ha estratto dalla scrivania, no?»
    Skorr'lathyem tirò su col naso.
    «Facciamo così,» continuò, di fronte allo sguardo imperterrito della donna «tu dai una letta veloce a quella cartella, mentre io mi godo lo spettacolo che ho finora solo intravisto sotto la tua gonna,» alzò l'indice della mano sinistra «mi prescrivi qualsiasi pasticca, soluzione in gocce, iniezione, tutto fuorché supposte, ritieni possa aiutarmi a non voler staccare la faccia a morsi a chi mi sta sulle palle,» alzò il medio «poi magari ti racconterò di quella volta che lo zio Jim mi ha toccato il cazzo nel capanno degli attrezzi, piangerò un attimino urlando 'mi sento così sporco!', tu mi porti con te nel tuo appartamento e mi... consoli.» alzò infine l'anulare.
    La dottoressa non batté ciglio, il sorrisetto, a metà tra il supponente e l'amicale, che le increspava leggermente il viso restò immutato; con l'indice e il pollice della mano destra prese la cartella di Skorr'lathyem e la sollevò. Con gesti deliberatamente lenti, la portò all'altezza dei propri occhi.
    «Lei mi fraintende, signor Lathyem.» con un movimento improvviso, lanciò la busta alla propria destra, lontana dalla scrivania; «Conosco la sua cartella clinica a menadito: posso anche dirle a che pagina e a che riga viene specificato quale sintomo o quale... incidente.»
    La donna appoggiò i gomiti sulla scrivania, tendendosi in avanti e appoggiando il mento sui propri palmi rivolti verso l'alto.
    «Quello che m'interessa,» completamente agli antipodi con quello che stava dicendo, lo sguardo della dottoressa Barlowe divenne acuto e impersonale come quello di un falchetto che andava alla ricerca di un roditore nella prateria «è l'opinione che lei ha di sé stesso.»
    Suo malgrado, Skorr'lathyem distorse lo sguardo.
    «Cosa vuoi sentirti dire, che sono un maniaco che va rinchiuso in un qualche manicomio a farmi fare l'elettroterapia ai coglioni!?»
    La situazione stava volgendo verso lidi che Skorr'lathyem preferiva evitare; cercava di fare la voce grossa, ma sentiva inconsciamente che stava solo ballando nella mano della dottoressa Barlowe. Ciononostante, il magnetismo dello sguardo dell'altra lo stava piano piano spingendo proprio in quella direzione.
    «Non è ciò che voglio sentirmi dire io, l'importante;» in tutti quegli scambi, il tono di voce della donna dall'altro lato della scrivania non mutò, sempre caldo, accogliente, come le lenzuola del letto dove si ha appena scopato «bensì, ciò che LEI ha da dire.»
    «Va bene.» Skorr'lathyem sospirò a fondo. «Sto cercando d'immaginarmi la sensazione del tuo piede nudo che massaggia il mio cazzo.»
    Non sapeva neanche perché l'avesse detto: voleva introdurre disordine in tutta quella conversazione che, fino a quel momento, era stata sotto il pieno controllo della dottoressa? Oppure era un tentativo come un altro di disgustarla, farle provare un senso di ribrezzo tale nei propri confronti che si sarebbe rifiutata di andare oltre, lasciando riscivolare i suoi segreti in quel dimenticatoio che aveva costruito con mura di superalcolici e fondamenta di droghe?
    La dottoressa lo guardava, per nulla stupita, amareggiata, disgustata; o, perlomeno, non lo diede minimamente a vedere.
    «A quanto pare non si sente a suo agio, signor Lathyem, ed è comprensibile.» la donna si riappoggiò sullo schienale della sedia «D'altronde, lei non è venuto da me di sua spontanea volontà.»
    Nella voce di lei si era infilato un sottotono di complicità, quasi comprensione.
    «Cionondimeno,» tono che scomparve completamente nella frase successiva «le voglio far presente che il motivo della visita era giudicare la sua idoneità al servizio attivo.»
    Afferrò una stilografica da un vicino portapenne e, con mano esperta, vergò qualche parola su un bigliettino, senza schiodare lo sguardo dal nebuloso viso di Skorr'lathyem.
    «Se lei non collabora con me, non posso di certo farlo.» seguitò, mentre l'uomo guardava ovunque meno che nella sua direzione.
    Tappando la penna, spostò leggermente il bigliettino.
    «Comunque,» un leggerissimo sospiro scappò dalle labbra della donna «può andarsene, se vuole, non la trattengo.»
    Un peso si tolse dal petto dell'uomo.
    «Non fraintenda, signor Lathyem» l'improvvisa durezza del tono di voce dell'altra lasciò intendere che aveva perfettamente letto la reazione di Skorr'lathyem; non che ci volesse un genio «lei non può tornare a operare finché io non la riterrò in grado.» si sistemò la camicetta, che intanto si era leggermente spostata e aveva messo un attimo più in mostra il reggiseno «Può tornare a farmi visita quando se la sente, a qualsiasi ora.»
    In tutto questo, Skorr'lathyem era rimasto in silenzio; sentiva che quella donna lo stava rivoltando come un calzino, con quegli occhi indagatori; sentiva l'iride acquamarina di lei farsi strada nei meandri più segreti del suo io, come se stesse scavando una miniera.
    Non gli piaceva per niente.
    Quello che c'era là dentro doveva restare nascosto, dimenticato.
    Doveva scomparire, se possibile.
    Si era già rivelato difficile farlo scomparire quando era solo Skorr'lathyem a esserne a conoscenza; non osava immaginare cosa sarebbe successo se anche la dottoressa Barlowe fosse entrata nell'equazione.
    Mugugnò qualcosa, un va bene poco convinto.
    Per quanto si sentisse messo in scacco dalla dottoressa, però, quella era l'occasione più ghiotta che aveva; quando si sarebbe ritrovato da solo nella sua stanza avrebbe preparato per filo e per segno una qualche storiella, l'avrebbe studiata nei minimi particolari e poi, qualora si fosse sentito pronto, l'avrebbe raccontata alla Barlowe; se riusciva a convincere la strizzacervelli della veridicità di quanto raccontava, lei lo avrebbe giudicato idoneo al servizio e si sarebbe trovato al sicuro da altri menti indagatrici come la sua.
    In un atipico gesto di cortesia, Skorr'lathyem chinò il capo sibilando qualcosa sulla falsariga di "Con permesso" si alzò e si diresse verso la porta.
    La mano destra dell'uomo stava per raggiunger l'ottone della salvezza, la maniglia che l'avrebbe fatto evadere da quel luogo maledetto dove l'oscurità viene a galla.
    «Prima che se ne vada, signor Lathyem.» la voce della dottoressa alle sue spalle suonò come il trillo che annunciava l'arrivo di un'ondata di cavalleria «Posso farle solo una domanda veloce?»
    Sperava con ogni fibra del suo essere che quella domanda fosse davvero veloce; quella parte della sua mente che funzionava solo con il reflusso di sangue sperava addirittura che fosse la richiesta di un appuntamento. Comunque, annuì, girando leggermente la testa per vedere la donna con la coda dell'occhio.
    «Come si chiamava?»
    Tra le novantaquattro domande che, nell'arco di tempo in cui aveva annuito, si era immaginato che la donna volesse porgli, questa non figurava. Scosse la testa, a dir poco confuso, voltandosi in direzione della dottoressa Barlowe.
    «Chi?»
    «La persona la cui fiducia lei ha tradito, signor Lathyem.» non c'era malignità negli occhi della donna, né c'era benignità. Non c'era morbosa curiosità, né la volontà di distruggere il male di una qualche buonasamaritana. C'era solo il guizzo di un professionista che faceva il proprio lavoro; e che sapeva di starlo facendo dannatamente bene.
    Skorr'lathyem si sentì come congelato, come se il tempo fosse diventato una sostanza gelatinosa e lui ci stesse sguazzando dentro; non esisteva un prima, un dopo, un adesso, andava avanti, indietro, a sinistra, a destra, in su e in giù, e in milioni di altre direzioni che esseri tridimensionali non potevano neanche iniziare a immaginare.
    Aveva tirato a indovinare?
    Doveva essere quello, era troppo specifica come cosa per capirla solo da una stramaledetta cartella clinica e una chiacchierata di neanche mezz'ora.
    Però era vero anche il contrario: quante erano le possibilità che tirando a indovinare riuscisse ad azzeccare ciò che era successo con Eddie? Non era il cinquanta e cinquanta di testa o croce, o il trentatré virgola tre del gioco delle tre carte.
    Doveva dire qualcosa, ma era troppo tardi.
    Era già passato abbastanza tempo da far capire all'altra che aveva completamente ragione; quindi, anche avesse tirato a indovinare, ormai ne aveva la conferma.
    Una parte della testa di Skorr'lathyem gli stava urlando di sollevare quella donna per la gola e strangolarla: non avrebbe avuto la forza di urlare, lasciandogli l'occasione di farla tacere per sempre e di dileguarsi dalla base prima che venisse scoperto. Sentì i muscoli del collo tendersi.
    Lo sguardo dell'altra era privo di ogni timore; com'era possibile? Se aveva davvero letto la sua cartella doveva sapere di cosa era capace, di cosa aveva fatto e di cosa era disposto a fare. Che avesse una sorta di protezione? Una telecamera a circuito chiuso, soldati qua fuori pronti a intervenire, una registrazione?
    «Non deve essere così ostile, signor Lathyem» ecco che tornava il tono caldo e amichevole. Lo stava manovrando come una marionetta, lo faceva ballare strattonando fili che solo lei vedeva. «Quanto detto qui dentro sarà un segreto tra me e lei, glielo posso assicurare.»
    L'uomo digrignò i denti; gli pareva di essere una volpe che sentiva il distante latrato dei cani da caccia.
    «Non voglio costringerla a parlare, ovviamente.» la donna si alzò, sistemando una piega nella gonna e spolverandosi il lato sinistro del petto; ancheggiando, con il ticchettio dei tacchi a punteggiare ogni passo, si avvicinò all'uomo, porgendogli il bigliettino su cui aveva scritto poco prima.
    Skorr'lathyem lo lesse distratto, il profumo della donna, ora più forte che mai, che gli ovattava la mente: Deanxit, una compressa, una massimo due volte al giorno, dopo i pasti, non la sera.
    «Cominci col prendere questo, signor Lathyem.» la dottoressa si trovava ora a poco meno di un passo di distanza, il più vicino che fosse mai stata a Skorr'lathyem; riusciva a vedere perfettamente l'alzarsi e l'abbassarsi del suo seno con ogni respiro, e avvertiva sulle clavicole il calore del suo alito, «Dovrebbero aiutarla con possibili attacchi...»
    Attacchi di cosa? Diarrea, sifilide, voglia di shopping? Doveva dirlo chiaro e tondo "Piglia queste quando stai dando di matto e vuoi uccidere tutti, ti faranno dare meno di matto e ti convinceranno a non voler uccidere tutti."
    «Appena uscirà dal mio ufficio contatterò la guardia medica della base con l'interfono; farò in modo che abbiano tutto pronto per quando passa.»
    Digrignò i denti, mugugnò qualcosa; voleva solo andarsene.
    «Un'ultima cosa.» in quel momento sentì il disperato bisogno di quelle compresse per non dare di matto «Questo glielo chiedo sia da psichiatra che da persona genuinamente interessata alla sua salute.»
    L'altra allungò la mano, come a volerla appoggiare sulla spalla di Skorr'lathyem, ma cambiò idea.
    «Se le viene difficile parlarne con me,» il tono quasi convinse Skorr'lathyem che a quella persona interessasse veramente la sua salute «provi a mettere per iscritto quello che vorrebbe dire, come una lettera a... quella persona.»
    Di tutta risposta Skorr'lathyem sputò fuori solo un «Faccio cagare a scrivere.»
    «Non deve mica scrivere per me o per qualcun altro, infatti.» lo rimbeccò l'altra «Bensì, scriva per sé stesso, metta nero su bianco ciò che non riesce a dire a nessun altro.»
    Riprovò lo stesso gesto di prima, stavolta arrivando a sfiorare il bicipite sinistro con l'unghia del medio, prima che Skorr'lathyem ritraesse la spalla, cozzando con la porta,
    «Poi può farne quello che vuole, bruciarlo, strapparlo in mille pezzi, non importa.»
    Sentiva uno sconforto crescente in tutta quella situazione, come se la donna di fronte a lui, un metro e settanta coi tacchi per neanche sessanta chili di peso, lo stesse intimorendo.
    «Forse.» mormorò, uno sforzo che si rivelò enorme.

    Poco prima dell'arrivo di Khan.

    Skorr'lathyem era seduto alla scrivania della sua stanza; di fronte a lui, un foglio pieno di frasi malamente barrate, una biro schifosamente rosicchiata e un blister di compresse lo stavano irridendo. Nelle crepe del legno gli parve quasi di vedere il viso della psichiatra, deformato in una maschera di derisione: cercò di scacciarlo con un pugno.
    Sebbene la stanza fosse ben ventilata, stava sudando come un cavallo, letteralmente gli pareva di perdere litri e litri di sudore. Non riusciva a tenere ferme le gambe: appena la sua concentrazione passava dal loro continuo ballonzolare a qualsiasi altra cosa, queste ricominciavano; sembrava stessero seguendo ritmi che Skorr'lathyem conosceva ormai a livello inconscio, quattro quarti, otto quarti, sedici quarti; poi iniziavano a variare, diciassette quinti, undici terzi, il caos più totale.
    Sospirò.
    Era agitato in maniera insana; tutta colpa di quello che aveva detto la dottoressa Barlowe.
    Solo perché aveva indovinato qualcosa che era successo nella vita di Skorr'lathyem, ora riteneva di conoscerlo a fondo, come un vecchio amico, di sapere cosa gli passava per la testa.
    Si alzò di scatto.
    «Fanculo! Tu non sai chi sono io!» si ritrovò a urlare alla propria immagine mentale della rossa.
    Un forte attacco di vertigini lo costrinse a lasciarsi ricadere all'indietro sulla sedia, la quale scricchiolò dolorosamente; Skorr'lathyem lasciò cadere la testa in avanti, sbattendola sulla scrivania: pulsava in maniera orribile, gli tremavano le mani; per quanto stesse sudando, la bocca era più secca di un deserto.
    Appoggiò i palmi tremanti sulle tempie; la voce della donna rimbombò nei suoi timpani così forte da fargli temere che sarebbero esplosi.
    «Tradito la fiducia...»
    «Zitta, troia...» gorgogliò, un fiotto di vomito che stava cercando di affogarlo.
    «Come si chiamava? Chiamava? -ava? a? aaaa? Come? Chia? Fiducia
    Il suono era come il fischio di un treno, le unghie di centinaia di persone su centinaia di lavagne, come la sofferenza di intere galassie racchiuse in un palloncino che veniva massaggiato con guanti di velcro.
    «Se non taci, ti ammazzo.»
    Le braccia erano attraversate da spasmi; la sensazione che una trivella rovente gli stesse torcendo le budella lo colpì dritto all'addome.
    Con una mano afferrò il blister con il Deanxit; era quasi vuoto, delle dodici compresse solo due ne rimanevano.
    Provò a spingere fuori una delle pasticche con il pollice, ma il tremore gli rendeva le braccia fiacche e non riusciva a controllarle; in preda alla disperazione, lo prese e cominciò a masticarlo, sputando pezzi di plastica e alluminio.
    Colpì la scrivania con la testa. Il rimbombo tolse, per un attimo tutto lo statico e il dolore.
    Un secondo colpo. La pace durò ancora meno che dopo la prima testata.
    Le seguenti cinque non ebbero più alcun effetto.
    Gli spasmi piano piano si calmarono, lasciando almeno a Skorr'lathyem una parvenza di ritrovato controllo sui propri arti.
    Prese in mano la penna; da qualche parte nella sua mente, era sorta la malsana idea che finire quello che stava facendo avrebbe fatto andare via tutto quel dolore, la vertigine, il sudore, le allucinazioni.
    Passò la penna sul foglio. Un tremore gli fece allungare di molto la gambetta di una p. Non reagì, continuò imperterrito.
    Provò a sputare il miscuglio di sangue, plastica e alluminio che gli girava per la bocca; fallì miseramente.
    Cercò di mettere un puntino sopra ad una i. La biro non scriveva più.
    Stancamente, provò ad alitarci sopra, facendo volare goccioline di vomito misto a sangue sul foglio.
    Improvvisi come un maroso, tutti i sintomi che aveva provato prima tornarono a tormentarlo; uno spasmo troppo violento lo fece caracollare all'indietro, facendolo finire a faccia in giù in mezzo al pavimento.
    Una cacofonia di urla esplose tutta intorno: assassino! alcuni gridavano, traditore!, altri, mostro! sembrava l'opinione della maggioranza; dalla bocca uscì, senza che lui potesse fare nulla, un leggero reflusso di sangue nero che imbrattò il pavimento.
    A poca distanza dal suo orecchio, riecheggiò violentemente il rumore dei tacchi della dottoressa Barlowe.
    «Come si chiamava?» gli chiese, la voce stranamente udibile sopra tutte quelle urla «Come si chiamava l'amico che hai ucciso, divorato, malamente sepolto in una discarica, l'amico che vuoi dimenticare ad ogni costo, l'amico che non avrà nessun futuro, l'amico che ha visto il tuo vero aspetto senza rifiutarti? L'amico che ha fatto l'errore di essere tuo amico? Come si chiamava, signor Lathyem? Come?»
    Provò a urlare, ma uscì solo un leggero gorgoglio, un sibilo rotto.
    All'improvviso, tutto il rumore cessò. Il silenzio era quasi più assordante di tutta quella cacofonia. Una voce diversa parlò da dove non poteva vedere.
    «Che c'è, Skorr?» no. nonono. no. «Non riesci neanche a dire il mio nome, amico?»
    Cercò di mordersi la lingua, ma non aveva quasi più il controllo delle proprie funzioni motorie.
    Sentì fiotti su fiotti di un liquido caldo e viscoso cadergli in mezzo alle scapole. Guardando sotto di sé, il pavimento era diventato completamente rosso, un lago di sangue.
    «Levami una curiosità, amico.» sentì un paio di mani prenderlo e girarlo, per metterlo a pancia in su. Di fronte ai pochi occhi, una figura che non vedeva da tempo, se non nei propri incubi.
    La carne delle braccia penzolava, con alcuni pezzetti che si staccarono e fecero schizzare in giro del sangue; un occhio era fuori dall'orbita, con il nervo oculare a fare da pendolo; la cassa toracica era aperta lasciando in vista un cuore pulsante che spruzzava sangue ad ogni contrazione. Ma la cosa che più spaventò Skorr'lathyem era il lato del volto ancora riconoscibile, una maschera di odio che lo fissava come se stesse fissando qualcosa d'inferiore a un verme.
    «Avevo almeno un buon sapore?»
    Come attraversato da una carica elettrica, Skorr'lathyem si alzò di scatto e cercò di colpire la figura davanti a sé.
    «Ha, quindi mi uccidi di nuovo, amico?» la carcassa di fronte a lui venne attraversata dalle braccia di Skorr'lathyem, rompendosi in svariati pezzi «Hai ancora fame dopo il banchetto dell'ultima vo-» la voce venne sommersa dal rumore della brandina che veniva sollevata dall'altro e fatta roteare intorno alla stanza, sfasciando il mobilio.
    Un urlo bestiale sfuggì dalla gola di Skorr'lathyem, mentre quest'ultimo si lanciava, instabile, a piena forza contro la porta, sfondandola.

    Khan prese in mano il foglio che aveva trovato accanto alla scrivania di Skorr'lathyem: era leggermente sporco di qualcosa che Khan non era interamente sicuro di voler identificare ed era stato vergato con una mano incerta, quasi infantile.
    Lesse le prime righe, poi piegò il foglio su sé stesso; decise di non leggere oltre.


    Yo!
    Ehilà!
    Eddie,

    so che sono l'ultima persona che dovrebbe scriverti queste parole che ti sto scrivendo suoneranno completamente fuori luogo scritte da me. Ma la strizzacervelli mi ha detto mi è stato detto che scrivere aiuta quelli fottuti in testa con dei problemi a esprimersi, quindi ci provo. Da quando... è successo quello che è successo, la mia vita è cambiata completamente, e credo anche la tua. Mi è sembrato che ogni scelta che facessi fosse volta all'autodistruzione; ho cominciato a starci sotto di brutto, come mi dicevi sempre tu. Dicevi sempre, non devi starci sotto di brutto, ed io lo ho fatto. Ho smesso di suonare; prima che t'incazzi, intendevo dire che ho smesso di suonare a tempo pieno. Sono entrato in un gruppo di mercenari, capitanato da due tizi abbastanza... strani. Ti piacerebbero, probabilmente. Hanno preso un pezzo di merda come me, drogato e al culmine di un baratro e stanno cercando di ripulirmi.

    Ma io sono coperto di troppa merda, anche per tutte le loro buone intenzioni. Non ero pulito quando sono entrato in questo mondo, e dubito che lo lascerò in maniera pulita; dannazione, molto probabilmente se non fosse stato per te sarei già morto almeno quindici volte.

    Perché è così difficile scrivere, cazzo. C'è una cosa che non sono mai riuscito a dirti... QUEL giorno, mi hai salvato da una parabola discendente che mi avrebbe, probabilmente, portato a una morte dolorosa. Grazie, amico.

    E scusami... Per tutto, per non aver saputo ripagare le possibilità che tu hai dato a me.

    Mi manchi, cazzo.

    Addio, Eddıe.


    Me to me: Prenditi per tempo Kyer, non trovarti a fare tutto all'ultimo come per l'uni.
    Also me to me: IL 15 AGOSTO HA BEN 24 ORE PRIMA DI MEZZANOTTE

    comunque, la citazione musicale è, stavolta, Good Friends and a Bottle of Pills dei Pantera.
     
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  12. Xisil
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    Ringrazio tutti i partecipanti per i loro lavori, a breve pubblicherò i risultati.
     
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11 replies since 31/5/2017, 14:19   244 views
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