Ius Vitæ

Autoconclusiva

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  1. Alexi»
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    I u s V i t æ


    Sul soffice tappeto dell'erba, i suoi passi erano nulla più di un lieve fruscio, un sussurro esile che ritmicamente andava a scandire il muoversi della sua figura, bianco e nero a sfilare lenti tra i toni caldi del bosco al crepuscolo. Sopra di lui, le fronde degli alberi chiuse come la volta di una tempio emanavano un odore avvolgente, mentre il vento friniva tra le loro foglie come un archetto invisibile. Nonostante quel delicato ondeggiare, l'atmosfera era fissa, statica, come se la natura avvolta dalle tonalità brune del sole fosse ancora piena di sonno. In un certo senso, nulla era cambiato da quando molto tempo addietro aveva aperto gli occhi su quel panorama, svegliato dalla gentile carezza che le macchie di luce gli elargivano penetrando il soffitto ombreggiato delle piante. Era rimasto fermo, allora, l'iride paglierina dei suoi occhi ancora fiaccamente socchiusi che si abbeverava di quei pallidi ruscelli, cercando di non rimanere abbagliata. Stava tentando di capire, di rimettere assieme i vari pezzi di quel puzzle confuso che gli si agitava nella mente, di cui gli spiragli là in alto parevano la perfetta immagine riflessa. Ma il cielo dorato che aveva intravisto al di là di essi lo lasciava perplesso, sgomento ancor più della radura sconosciuta che accoglieva il suo corpo esanime, privo di forze: non aveva mai visto, in vita sua, dei colori tanto peculiari.
    Aveva tentato una prima volta di alzarsi, ma sembrava che le sue intenzioni non fossero in grado di raggiungere l'intelaiatura del corpo. Per un momento si era quasi convinto d'aver chiesto a se stesso qualcosa di assurdo, neanche avesse appena ordinato ad una pietra di levarsi dal suolo e spiccare il volo. Infine però era riuscito a sollevare un braccio, il colore eburneo delle dita a stagliarsi nettamente contro l'opaca luminescenza del luogo — forse appena un poco più pallide di quanto le ricordasse. Lentamente, la sua coscienza ancora annebbiata aveva preso a stiracchiarsi, ad allungarsi lungo le membra restituendogli la percezione del petto, del torace, delle gambe. Ma qualcosa continuava a rimanere silenzioso, laddove un tempo le passioni più contrastanti si erano date battaglia rendendo la sua esistenza nulla più che un desolante paesaggio di consunzione. Aveva atteso, di nuovo. Forse sperando che, assieme al resto, anche l'eco ritmica di quel tamburo tornasse ad agitarglisi nel petto, a scandirgli in chiari toni che , era ancora vivo. Ma ogni speranza era rimasta disattesa, ogni indugio ricompensato da nulla più di un vuoto silenzio, a stento riempito dai suoni che la natura continuava ad intessergli tutt'intorno.
    "Sono morto" quest'unico pensiero era riuscito a formulare innanzi a se stesso, proprio nell'istante in cui si accorgeva di essere ancora in vita. E aveva visto giusto: l'uomo che sapeva con certezza di dover essere si era spento.

    Ma quel giorno era ormai lontano, distante da lui come se mille reincarnazioni gli avessero fatto assaggiare tutti i sapori del mondo — con tanta insistenza da renderlo indifferente al loro gusto. Se lo spaesamento l'aveva al principio tenuto incollato al suolo, incapace d'abbandonare il giaciglio della sua infermità, ora nessun tragico pensiero affollava la sua mente, mentre si attardava ad osservare il profilo appena un poco sghembo dell'albero più vicino. Vi appoggiò la mano, lasciando che i guanti attutissero il tocco ruvido della corteccia, assaporando quel contatto come la prima volta, quando si era tirato in piedi ancora fiacco e tremante. I contorni del bosco erano esplosi in centinaia di piccoli pallini sfumati allora. Ma adesso gli pareva di riuscire a distinguere ogni sagoma attorno a lui con precisione quasi disumana, mentre lasciava che il suo sguardo giganteggiasse sulla prospettiva senza fondo del viale fra i tronchi, annodandosi all'inesistenza del punto di fuga, laddove ogni linea immaginaria converge nella pupilla divina.
    Una freddezza quasi invernale si depose attorno a lui, mentre seguiva i propri ricordi in quella stessa situazione passata, quando invece si era sentito come un animale rachitico uscito per disgrazia dalla propria favola. Senza riuscire a spiegarsi perché, in quel momento era stato agitato da convulsioni capaci quasi di gettarlo nuovamente a terra; di costringerlo a portarsi una mano al volto; di piegarlo in due col capo rivolto verso il basso, i capelli scompigliati. Ora lo sapeva: nulla di un simile spaesamento era reale. Ma forse l'infanzia della sua nuova persona era ancora troppo calda del vecchio sangue — ormai senza dubbio prosciugato — per permettergli di distinguere il sentito dal costruito. Ma se il ricordo l'aveva ingannato mescolandosi alla realtà, ora non più. Non era altro che un ricca galleria d'immagini cui non aveva più accesso sul serio, come se delle sbarre lo separassero da loro impedendogli di toccarle — di avvertirle vivere in lui.
    Non esitò a staccarsi da quel contatto, riprendendo a camminare tra i lunghi colonnati della vegetazione, non così dissimili in fondo da quelli che avevano adornato il retroscena della sue lezioni passate, una vita prima. Ma mentre raggiungeva il limitare della piccola selva, immergendosi nell'arancio del sole che lentamente si muoveva a risalirgli le gambe, si rese conto per l'ennesima volta che non c'era nulla di simile tra il prima e il dopo. Tra le due epoche si stagliava una spaccatura così profonda, un'eterogeneità tale da rendere quasi impensabile qualunque diretta connessione, come accade col tempo e l'eternità, col mobile e l'immobile. La sua era soltanto una sussistenza in precario equilibrio, non davvero esistente e d'altro canto non proprio nulla, pronta in entrambi i casi a precipitarlo nell'abisso, qualora si fosse fatto trovare impreparato anche solo un istante. Era un pellegrinaggio da mendicante il suo, quello che compiva cercando la via verso il sacrario che l'avrebbe guarito dalla sua lebbra interiore. Null'altro c'era di comune col vecchio lui, salvo questo bisogno di risanamento.
    Percorse ancora il tunnel dei ricordi, mere gocce di pioggia che gli scivolavano addosso senza dissetare la sua secchezza, finché ritornò alla prima volta in cui quel panorama di eterno crepuscolo gli si era stagliato innanzi alla vista, costringendolo di nuovo a chinare il volto e distogliere gli occhi, suo malgrado. Quel sole, così immenso e così immobile; così luminoso eppure così cupo, morente. Ogni pigmento del panorama gli era del tutto alieno. E lo aveva disprezzato per quello: ad ogni secondo gli rammentava di non essere a casa sua. Ma ora che i turbamenti del cambiamento erano passati, aveva imparato a considerarlo quasi un fratello, così simile a lui: incapace di risalire i gradini del cielo per stagliarsi a picco sui tetti delle case; incapace altresì di lasciarsi andare e cedere il posto alle fresche balze della notte, al fuggevole bacio della luna. Erano incastrati nel mezzo, loro due. Come tutto quel mondo, come tutti quelli della sua misera razza. Fuori luogo proprio come un muro tra due amanti. Una cosa da abbattere, affinché l'ordine venga ristabilito.

    Raggiunse la città. Ora come allora, non fu in grado di offrirgli nulla: era una pietra gelida quella che lo accoglieva ogni volta, priva di alcuna storia di valore da raccontare, nella sonnolenza generale del posto. Gli abitanti sembravano come prigionieri di quella malia, incapaci di accorgersi di alcunché gli avvenisse attorno. Poteva ben credersi che, fintantoché la luce continuasse ad avere le medesime sfumature, tutto l'universo avrebbe potuto cedere e loro non se ne sarebbero accorti. Quando aveva attraversato la strada di fronte a loro, gli occhi in folle agitazione, preda di delirio e stordimento, avevano continuato a camminare e sorridere. Difficile credere che fossero avvezzi a tale spettacolo. Più probabile che avessero deciso di rendersi ciechi ad esso: gente imperturbabile come immutabile era il loro clima. E anche quella volta nessuno fece caso a lui, al suo sfilare silenzioso come un'ombra appena più accennata rispetto alle altre. Era come se non esistesse.
    C'erano tuttavia alcuni luoghi che aveva imparato ad apprezzare di Crepuscopoli, laddove le costruzioni si facevano più rade aprendo uno spiraglio di ampio respiro sul cielo. Ma a dispetto di questo, non trovava la completa tranquillità nella contemplazione estatica del paesaggio. Tutto ciò che riusciva a fare era sedersi, le gambe sul vuoto, gli occhi chiusi a fissare la macchia indistinta del crepuscolo sotto le palpebre... e pensare — accompagnato talvolta dal soffice brusio di una fontana.
    "Quale diritto rimane a gente come me di vivere?" se l'era chiesto così spesso, prima, quando l'ignoranza del nuovo stato aveva offuscato il suo giudizio. "A quale giustizia possono mai sperare di appigliarsi i Figli del Vuoto, quando il mondo stesso li rigetta come un assurdo di cui è meglio disfarsi? Lasciate a se stesse, queste infime briciole d'esistenza di cui condivido il destino dovrebbero soltanto svanire. È forse del Cuore l'autorità che sostiene tutti noi, consentendoci di restare a dispetto di tutto? È sufficiente questa sua disposizione affinché possiamo sentirci al sicuro, mentre consumandoci invano cerchiamo di tornare a lui?" Tale la vanità nella sua prospettiva di commiserazione! Tale l'ignoranza nel suo disprezzo verso il mondo e verso il prossimo!
    Non capiva allora, non capiva affatto. Voleva imporre alla natura il suo parere secondo abitudine e per tale motivo veniva da lei rigettato, quale empio propugnatore di falsità. S'era convinto che, al pari di prima, la sua nuova vita dovesse possedere uno status giuridico quasi di per sé sussistente, incatenato alla ferrea coercizione di leggi imperiture così come avveniva per luce e tenebra. Non si era reso conto di essere diventato, in quanto Nessuno, la più contingente delle contingenze: un granello di polvere sospinto dalle correnti di quel grande oceano chiamato destino. Nulla di veramente stabile gli era rimasto a cui ancorare la propria forma, salvo una sola cosa: il fine ultimo da perseguire, che di per sé procurava tutta la sostanza della sua seconda opportunità. Unicamente a tale calvario era legato il suo nuovo diritto alla vita: giorno dopo giorno, perseguire l'urgenza di andare verso la morte per rendersi meritevole della vita.

    Riaprì gli occhi nell'atto di tale pensiero, lasciando che il bagliore fioco del sole si portasse via lentamente la percezione della realtà, trascinandolo fuori da Crepuscopoli e sprofondandolo in un lattiginoso universo dominato da un'unica macchia nebulosa. Si chiese se anche unirsi col Regno dei Cuori un giorno l'avrebbe lasciato in un simile stato di colma soppressione, mentre gli restituiva l'unico lume capace di accendere la vera vita. Sarebbe bastato quello a soddisfare ogni suo possibile desiderio. Se anche la morte — la vera morte — l'avesse colto allora imprigionandolo nell'eternità di quell'istante oltremondano, non avrebbe avuto motivo per lamentarsi. Quale modo migliore di guadagnarsi la pace? Purificare nel fuoco della sofferenza quotidiana ogni smagliatura; presentarsi in veste candida innanzi al Primissimo; vedersi appuntata al petto la medaglia del cuore; e infine spirare, candidi e beati, al sicuro da ogni caduta.
    Se solo quell'epilogo non fosse stato così lontano, avrebbe quasi creduto di poter allungare un braccio ed afferrarlo. Proprio là, ora. E farlo suo per sempre. Ma non poteva, non ancora. Non era quella la regola secondo cui adesso respirava, pensava, agiva. Non c'era più posto per la grazia, per il soccorso gratuito. Aveva esaurito tutta la propria dose per sopravvivere alla perdita del cuore, per sfuggire all'annientamento di cui era causa prima ed ultima, nei confronti del quale era indegno ed immeritevole sopravvissuto. E sebbene ogni giorno sacrificasse con purità per quello, ben sapeva ormai trattarsi di un inizio gravoso, più che di un comodo finale. Era sopravvissuto, sì, ma naufrago. Gettato dalla risacca su lidi stranieri. Occorreva che trovasse la via di casa. E le difficoltà, che mai come allora gli erano apparse così chiare, non lo spaventavano: anche volendolo, non aveva più in animo di provare timore verso alcunché. Difettoso di libertà, camminava su un sentiero già tracciato, di fronte al quale ripugnava ammettere deviazioni. Nano sulle spalle di giganti, non poteva far altro che sfilare in reverente processione dietro alla loro lucerna, premurandosi solo d'emendarne la via, laddove già una volta era rovinata a terra estinguendosi nella polvere.


    Boh, che dire? Mi sento sempre in dovere di scrivere qualche nota :v:
    Avevo voglia di ruolare con qualcuno che mi facesse compagnia, ma in mancanza di Quest Iniziale ho ritenuto più corretto scrivere una cosettina che introducesse il PG e soprattutto ri-introducesse me alla scrittura. A forza di stilare confutazioni e dimostrazioni, tornare a questo stile è un po'... meh :v: Anyway, probabilmente il post non è nulla di eccezionale (anche se ci sono alcune ideuzze e alcuni passaggi che me gustano). Una cosa è evidente: non è Aster, bene o male che sia. Questo significa che per me è una nuova esperienza narrativa e descrittiva, perciò abbiate compassione... mi rendo conto di non essere stato particolarmente dinamico, ma hopefully verrà il tempo x'D
    Well, lascio lo scritto nelle grinfie di non-so-chi senza aggiungere altro. Spero solo possa piacere almeno un po' C:


     
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  2. Xisil
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    Ci ho messo poco, neh?


    CITAZIONE
    Scrittura e Interpretazione: è passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che ho avuto il piacere di leggere qualcosa di tuo, e devo dire che in questo incipit ho ritrovato molti degli elementi tipici del tuo stile, così come io ho avuto modo di conoscerlo, ricco e ricercato. Cerchiamo di entrare nello specifico:
    Il componimento è introspettivo, difatti in linea generale non vi sono eventi o azioni che permettano di “ruolare”, nel senso vero e proprio, ma solamente di descrivere qualcosa che a conti fatti il lettore non può "vedere". In questo testo a mio avviso avresti potuto aiutare di più il lettore, accompagnarlo attraverso quelle riflessioni con un linguaggio che veicolasse delle immagini più semplici e di facile comprensione. Ciò che personalmente ricevo da questa lettura è un senso generale di spaesamento, che forse è solo in parte ciò che volevi trasmettere, derivato da una situazione, quale quella del Nessuno, che certamente hai cercato con tutto te stesso di disancorare dalla solita e canonica descrizione di apatia e di assenza di emozioni. Vi sono momenti in cui il linguaggio dal sapore poetico arricchisce il testo, altri in cui la retorica diventa addirittura ridondante nell'esasperata (concedimi il termine) ricerca di una ricchezza stilistica, con metafore collocate persino in circostanze in cui forse non ci si aspetterebbe, e che di conseguenza la mente fatica a riconoscere come un processo cognitivo naturale. A conti fatti si tratta di gusto, non di un vero e proprio errore. È il tuo stile e ne prendo atto.
    Come tu stesso hai detto, questo tuo nuovo personaggio non è certamente il caro, piccolo, tenero Aster, il che dopotutto non è un gran male. Non fraintendermi, le quest con Aster a cui ho avuto modo di partecipare sono sempre state mentalmente molto stimolanti e mi hanno sempre spronato ad adeguarmi ad un certo standard, ad uno stile, per così dire, altrettanto aulico. Nuovo personaggio o forse soltanto le circostanze (una situazione di partenza che può presentare solo in parte le sfaccettature e la complessità di un personaggio), resta il fatto che il testo, nel complesso, suona più leggero dei precedenti che vedevano come protagonista il marmocchio.
    Riassumendo, non vi sono vere e proprie correzioni da parte mia, solo la segnalazione di un uso della retorica che a volte appesantisce la letteratura, ma che a volte calza perfettamente nella resa originale di emozioni ormai viste e riviste. Mio umile consiglio quindi sarebbe di non abusarne laddove una descrizione più "fisica" stonerebbe meno.

    Voto: 8/10
    Ap: 9 (8 +1)
    Munny: 430

     
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