Notte del Sabbath

Quest Privata

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  1. Elation
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    Mosse ancora il viso verso quel corpo morto, lo annusò con interesse, sollevò un braccio mollemente abbandonato a terra e si preparò a tuffarci il viso. Deglutì a vuoto, cercando di ricacciare indietro quel bisogno difficilissimo da tenere a bada. Un rivolo di saliva si affacciò ad un angolo della bocca e Flandre se lo leccò via, rendendo ancora più nera la sua fame. Un leggerissimo retrogusto ferroso in quel frammento liquido. Flandre si morse la lingua e strinse i denti, ritraendosi come di fronte ad un nemico o a qualcosa che la infastidisse. Ma più si allontanava, più la voglia di riavvicinarsi aumentava. Più si negava quel piacere, più il desiderio di prenderselo si faceva potente. La sua mente si annebbiò e per qualche istante; nel vuoto più totale, erano rimaste solo le richieste sempre più insistenti del suo stomaco e quel profumino invitante. Non c’erano più nemmeno i corpi morti. Non c’era più nemmeno la ragazza. Non c’era più nemmeno lei stessa. Solo fame e il combustibile per attizzarla ulteriormente. Si rese conto di essere rimasta per diversi secondi a fissare il vuoto quando la voce sottile della sua nuova compagna comandò ai suoi nervi di riprendere coscienza di dove si trovasse e cosa stesse facendo. Si ritrasse su se stessa, come se fosse stata rimproverata e voltò il capo con espressione interrogativa, gli occhi rossi spalancati come per chiedere scusa di qualcosa che non era sicura di aver commesso. Ci teneva a lei, voleva farsela amica. Se non altro, per non essere più da sola durante la caccia. Per quanto non le dispiacesse correre libera e non avere regole, Flan non era nata per vivere isolata, nonostante l’avessero cresciuta come tale. A lei piaceva stare con gli altri, anche quando gli altri non condividevano i suoi gusti. A lei piaceva avere qualcuno con cui giocare. Indipendentemente se quest’ultimo fosse consapevole di essere il giocattolo, la preda o chi per essa. Ma in quel momento, vicina a quella fanciulla tanto bella, Flandre si stava riscoprendo desiderosa di una spalla. Non cercava una leader, ma se ne sarebbe fatta una ragione, se si fosse trattato di una volta o due ogni tanto. Con il dorso della mano si asciugò la striscia umida che le era colata fino al mento e osservò, con la mente sgombra, l’altra avvicinarsi a lei.
    La ritrovò al suo fianco, china sulle ginocchia. Osservò i suoi gesti mentre privava la carcassa minuta di ogni indumento. La vampira si morse le labbra, seguendo i movimenti della fanciulla senza staccarle gli occhi di rubino di dosso, rapita da quelle appendici demoniache. Ricacciò in gola il desiderio di incollarsi ad esse e ripulirle dal rosso, spinta dalla fame e, probabilmente, anche un basilare desiderio di morderla, dato che cominciava veramente a non sopportare più quel rombare insofferente del suo stomaco vuoto. La osservò stordita mentre assaggiava la carne, mentre tirava i lembi di quel cadavere, mentre le ossa si spezzavano, lo sterno seguiva l’attaccatura delle ossa e il sangue gocciolava verso il basso ticchettando ritmicamente. Il cuore pregno di oscurità di Flandre si sincronizzò all’istante con quel tamburellio, accelerando il ritmo e spingendola sempre di più ad avventarsi sul pasto. L’odore, il colore, la fragranza ferrosa sulla lingua, il rombo disturbato e impaziente dalla voragine nella sua pancia. Aveva fame. Tanta fame. Deglutì un grumo denso di saliva e distolse lo sguardo. Doveva controllarsi. In fondo, stava cercando di farsela amica, no? Non era attratta da lei solo per il cibo. O meglio, in quel momento sì, ma in generale no.
    «Mi sono lasciata trasportare, non sarei certo in grado di mangiare tanta carne in una volta sola. Puoi favorire, se vuoi.»
    Sbarrò gli occhi sorpresa, schiudendo leggermente le labbra come se non avesse capito. Eppure era così semplice. Le stava dicendo che avrebbe condiviso il pasto, che la vampira era qualcuno con cui avrebbe mangiato volentieri. Di altre ipotesi non si preoccupò. Nella testolina annebbiata della bionda, l’uguaglianza era lampante: favorire uguale qualcosa per lei. E quel qualcosa per lei le fu gettato ai piedi. Rivolse appena uno sguardo alla fanciulla mentre mangiava, prima di rimuovere ogni freno e tuffarsi con un verso soddisfatto sulla carne che le era stata offerta. Piantò le unghie spesse nella pelle superficiale, strappandola via e divorandola nel giro di pochi istanti. Leccò la carne scuoiata, prima di affondarci i denti e strapparla con uno strattone, masticando vorace e ripulendosi mano a mano i residui di sangue dal viso e da sotto le unghie. Niente di tutto quel cibo andava sprecato, non con tutta quella fame, non con quel brontolio insaziabile. Le ali vibravano di felicità, o comunque di un'emozione che la bambina avrebbe definito come tale, tintinnando lugubri ad ogni suo movimento. Piantò gli artigli in profondità, fino a raggiungere le ossa rimaste della cassa toracica; strappò via tutto, lacerò ogni cosa e divorò ogni centimetro di tessuto, finché non restarono solo le ossa, ripulite da ogni residuo. Morse persino quelle, finché le schegge dure non le confermarono che non c’era più niente di umanamente commestibile. Se non fosse stato che aveva ancora carne morbida, non molta, nei resti sotto di sé, probabilmente Flandre si sarebbe spazzolata via anche quelle.
    «Di’, come ti chiami?» La bambina spezzò un nervo duro con i denti, sorridendo e abbandonando le braccia lungo il busto. «E che razza di creatura sei? Non un Heartless, o sbaglio?»
    Afferrò l’ultimo pezzo del pasto, se lo portò alle labbra e lo addentò, sbriciolando nella morsa anche qualche frammento d’osso. Mandò giù il boccone e cominciò a pulirsi le mani suggendo via il nettare rosso. Si ripulì con cura, controllando di non avere più nessuna traccia di sangue nemmeno attorno alle labbra.
    «Flandre,» rispose dopo un po’, voltandosi verso la sua compagna. Si lasciò cadere indietro di schiena, lunga distesa sulla strada. Alzò le braccia verso l’alto e chiuse piano le dita facendo schioccare le giunture.
    Heartless? Quei cosi neri con gli occhi gialli? Quelle creature che aveva morso e non avevano per niente un buon sapore? E che non era nemmeno riuscita a masticare. Perché avrebbe dovuto essere una formica gigante? Che creatura era? Si portò una mano vicino alla bocca, con fare pensieroso e cominciò a mordicchiarsi le dita. Riassunse tutto ciò che sapeva di sé in pochi e semplicissimi pensieri: lei era una vampira, non le piaceva il sole, le piaceva la carne, le piaceva cacciare e non sopportava la sorella. Che cos’era?
    «Sono una persona,» rispose semplicemente, grattandosi la testa, non sapendo come classificarsi. Non era umana perché era un vampiro, non era un’Heartless perché… perché non lo era. Doveva ancora capire bene cosa fossero, quegli esseri strani che la fissavano quando passava e che, ogni tanto, la seguivano. Si era domandata più volte che cosa fossero, ma, quando la risposta aveva tardato ad arrivare all’ennesimo tentativo, aveva rinunciato a scoprirlo e aveva smesso di chiederselo. L’unica soluzione possibile sembrava essere la più generica di tutte: era una persona. Non conosceva altro di particolare.
    Si rimise seduta, poi sulle quattro zampe saltellando e trotterellando allegramente verso la sua compagna, seduta sul bordo di una fontana che aveva precedentemente ignorato. Si fermò vicino ai suoi piedi, accucciata, fissandola intensamente.
    «Perché? Secondo te cosa sono?»
    Il gorgoglio stagnante dell’acqua faceva drizzare le sue orecchie, attente a captare tutti gli altri suoni: copriva i rumori più bassi, a quella distanza, e, in caso ci fossero state altre prede, altre vittime, lei se ne sarebbe accorta solo con l’olfatto. La cosa non le andava molto a genio, ma arrivata ad uno stato accettabile di sazietà, Flandre si rassegnò a non cacciare oltre per rispetto nei confronti della sua nuova compagna. Di cui non sapeva ancora il nome.
    «E tu come ti chiami?» aggiunse quindi, mettendosi seduta e non più carponi, abbracciandosi le ginocchia e abbozzando un sorriso. Non era mai stata brava a parlare con gli altri, aveva passato molto tempo a conversare con se stessa o con oggetti che non rispondevano; non sapeva quale fosse il modo giusto per approcciarsi, né distinguere tra un’offesa, una provocazione o una frase cortese. Cercava solo di comportarsi nel modo più educato, interessato e rassicurante possibile. Stava combattendo la tentazione di saltarle addosso per annusarla e assaggiarla, in modo da ricordarsi meglio il suo odore, il suo sapore e il suo aspetto. Ma anche nella poca comprensione che aveva del mondo, Flandre capiva che quello non sarebbe stato un gesto carino, né tanto meno amichevole. Dunque se ne stava lì, cingendosi le gambe per evitare che si muovessero da sole e che la portassero ancora più vicina all’altra con un movimento involontario. Una volta avuta la posizione, sarebbe stato difficile controllare tutto il resto, la bocca in particolare, e quindi cercare di arginare l’eventualità in partenza.
    Ne vale la pena,” si disse, “se voglio stare con qualcuno come me.

     
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