Notte del Sabbath

Quest Privata

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  1. Elation
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    Annusò l’aria, si incurvò sugli avampiedi e attese. Aspettò nel buio, gustando sulla lingua l’umidità vitrea e stagnante di quel nuovo mondo. Era tutto così buio, così bello. Poteva nascondersi, poteva passare inosservata e attaccare la preda senza che questa avesse anche la più piccola possibilità di notarla. Cacciatrice della notte, Flandre si era appostata nella folta coltre morta di alberi secchi, che si inclinava dolcemente agli angoli del sentiero. Da brava, paziente predatrice, aveva atteso che l’occasione fosse propizia. Finché il suo stomaco non brontolava reclamando un pasto, poteva restare immobile, invisibile agli occhi della vittime per ore, senza risentire di alcun tipo di stanchezza. La prospettiva di riempirsi la pancia con un succulento banchetto era sufficiente a farle sopportare qualsiasi scomodissima posizione. Le sue giunture allenate, i muscoli tesi e pronti allo scatto non si lamentavano, subordinatisi al desiderio di sfamarsi. Le ali basse, il corpo schiacciato contro il terreno e i sensi tutti allerta, continuava ad attendere. Sperava solo che il brontolio, il rombo di tuono nato dalla fame non si facesse vivo troppo presto, altrimenti addio appostamenti. Dopo Radiant Garden, dopo quel delirio di sangue, fiamme e urla, la vampira si era tenuta in disparte da tutto e da tutti, osservando le scene sotto di lei dall’alto dei tetti, ombra tra le ombre. Aveva frugato tra i corpi morti alla ricerca di carne tenera e succulenta, per arrendersi quasi subito dato che mancava ciò che veramente dava sapore al cibo: la battaglia, le suppliche. L’adrenalina aveva smesso di fluire in lei, nel giro di pochi minuti aveva smesso di correre nelle sue vene e la noia era sopraggiunta. Così, riconoscendo la vastissima concorrenza e le probabilità di essere accerchiata e chiusa da più direzioni, nonostante lei fosse più che pane per i denti di quelle stupide guardie, aveva deciso di tenersi in disparte. Aveva esplorato le vie dall’alto, fissato il cielo buio e si era goduta il rumore brulicante del buio, l’odore delle fiamme, del sangue, della paura. Le sue orecchie si erano nutrite di qualunque suono, della sofferenza e degli stridii delle armature, del cozzare delle armi. Aveva attaccato qualche ferito, giusto per evitare di sentire nuovamente le fauci della fame consumarle lo stomaco e lacerarle la pelle; per il resto, si era intrattenuta con individui solitari, inutili. Superflui. Per certi versi, era stranamente triste non sentire più i rimproveri, sempre e comunque inascoltati, della sorella maggiore. Mancava proprio il senso di trasgressione delle regole, di violazione degli ordini. Così, in mezzo ai deboli, era troppo facile.
    Neanche per un secondo, tuttavia, la bambina aveva pensato di mettersi alla ricerca di una sfida, di un nemico potente da buttare giù con la forza bruta. Per niente. Flandre si era unita alle schiere degli Heartless solo per sentire sulla pelle il piacere, la gioia e il delirio del Caos. Se n’era andata prima che tutto finisse, dopo essersi presa la sua buona dose di -relativo- divertimento ed essere passata inosservata agli occhi di molti. Più di un muro, nella cittadina, grondava sangue; più di un mutilato giaceva sotto le luci fatue dei lampioni della Città di Mezzo. Lei, di lì, era passata, ma non c’erano testimoni in vita, in grado di raccontarlo. A parte, forse, quel parassita che le si era attaccato addosso come una pulce. Neanche si ricordava il nome. E di pulci ne sapeva qualcosa. Ne aveva mangiate tante, durante gli anni di prigionia. Ad un certo punto, l’aveva perso di vista e non si era minimamente posta il problema. Una rottura di meno. Aveva passato poco altro tempo in quel luogo. Ad un certo punto, si era lasciata inglobare dal buio che l’aveva richiamata e si era rifugiata lì, andando dove la stessa oscurità aveva deciso di portarla.
    La destinazione era perfetta; il varco non l’aveva delusa. Era scesa silenziosamente sulla strada, percorso in lungo e in largo la zona circostante e, solo dopo aver fatto conoscenza con il luogo, Flandre aveva cominciato la sua silenziosa posta.
    Non si era mosso niente, non aveva visto nessuno. Aveva pazientato a lungo, ma niente di speciale aveva attirato il suo naso. Gli unici rumori erano stati lo stormire leggero del vento e i rami secchi che cercavano di contrastare la sua forza, qualche verso lontano, suoni comuni; nulla di particolare. Aveva cominciato a pensare che quel luogo fosse disabitato. Forse, tornare indietro, in una delle poche città che aveva già avuto modo di conoscere, non sarebbe stata una cattiva idea; almeno lì era sicura che ci fossero prede da cacciare. Finché non era arrivata una ragazza vestita di bianco, pallida, allegra, con le sue scarpette incendiate di rosso. Talmente limpida da stagliarsi come uno spettro contro il nero della terra, delle tombe, dei morti in putrefazione, dei cadaveri impiccati. La vampira la osservò con la bocca dischiusa, gli occhi fissi, concentrati, la mente sgombra e l’istinto animale che cominciava a comandare le sue azioni. La osservò bene, trovandola disarmata, apparentemente fragile. Tuttavia, qualcosa non andava in tutta quella spensieratezza. Qualcosa non andava in quel visino sottile, in quei lineamenti troppo dolci. Cosa ci faceva una come lei in un luogo come quello? Il male l’aveva portata nella terra dei demoni, perché la stessa Flandre era un demone sotto mentite spoglie. E quella bambola di porcellana? Come ci era arrivata?
    No, non si sarebbe lasciata ingannare dalle apparenze. Lei stessa giocava sull’impressione e sull’aspetto. Prima di lanciarsi all’assalto, l’avrebbe studiata. Poteva anche sembrare un fantasma, un’apparizione ma, se fosse stata una creatura non fisica, i suoi piedi non avrebbero fatto rumore, la sua veste non avrebbe frusciato. Inoltre, quella fanciulla aveva un odore tutto suo, un profumo misto, succulento, che ben conosceva. Aveva imparato presto a distinguere i vivi dai morti, e non solo con la vista. Non era assolutamente un essere immateriale: era fatta di carne, muscoli, ossa, pelle. Era viva. Il suo stesso odore rimandava indietro il calore dell’esistenza.
    Flandre si era leccata le labbra, aveva fatto schioccare le mascelle in una torsione del capo, stretto gli artigli sul terreno ed era arretrata, diventando praticamente indistinguibile dagli alberi, dalle tombe. Si teneva lontana dalla luce, cercava con attenzione di non produrre alcun rumore. E da lontano, dalla sua postazione riparata, sottovento, vegliava sulla ragazza, in attesa di essere lei stessa ad attaccarla. Stava reprimendo il desiderio della lotta, dello scontro, con tutte le sue forze; cercava di confinare lontano il fremito delle membra che volevano la battaglia. Non si fidava, non riusciva a fidarsi.
    La bambina trasalì quando vide la sua preda mettersi a fischiettare: sbarrò gli occhi e balzò ancora più indietro, leggera, invisibile, ma chiaramente presa in contropiede. Niente di ciò che stava vedendo sembrava avere un minimo di senso. Non aveva paura, era a suo agio. Vedeva gli impiccati, corpi senza testa, arti sbucare dal terreno, sangue scorrere dalle lapidi e non aveva la minima reazione. C’erano mostri disegnati, abomini scolpiti, rigurgiti di budella, di creature defunte e lei danzava; si muoveva sinuosa come se quello fosse un mondo fatto apposta per lei, costruito per soddisfare le sue esigenze e le sue fantasie.
    Aveva fatto bene a tenersi in disparte. Non c’era niente di normale, di umano in lei.
    Alla fame e alla bramosia, presto, si era sostituita la curiosità. Non si era avvicinata, assolutamente. Era rimasta al suo posto, ma aveva messo da parte qualsiasi intenzione bellica. Non la perdeva d’occhio un istante. Per le sue iridi scarlatte, quella ragazza vestita da angelo era un soggetto degno di interesse.
    La sentì ridere, mormorare qualcosa. Le orecchie della bambina si tesero, per riuscire a comprendere cosa stesse dicendo; tuttavia fu un altro il rumore che attirò la sua attenzione. Un ticchettare ritmico che si avvicinava. Sembrava quasi un passo saltellato, che qualcuno stesse giocando. Spostò piano il suo sguardo, seguendo i movimenti di un gruppo di marmocchi. Concentrata com’era su quella bellissima figura, non si era accorta di loro finché il suono delle loro scarpe non si era mescolato con la voce limpida della ragazza. Viaggiò con gli occhi da loro a lei, in continuazione, alla ricerca di una risposta ai suoni. Solo quando vide una delle sue braccia tramutarsi nel folle prodotto di un incubo, un artiglio mostruoso, demoniaco, disarmonico ma incredibilmente bello ai suoi occhi di bambina deviata, Flandre si lasciò andare ad un sospiro e ad un sussurro di piacere. Era come lei. Era un mostro, come lei. Cambiava aspetto, come lei. Era una compagna, un’amica, una pari. Anche se non ci aveva ancora parlato, anche se la sua forza si fosse dimostrata superiore, quella ragazza era ciò che stava cercando da sempre: un altro diavolo, un altro scarto umano. Era lei, una sorella nata da madre diversa. Era lei, quel qualcuno che non l’avrebbe mai rifiutata perché troppo simili. Era lei, era la soluzione a tutti i suoi vuoti, a tutte le sue mancanze. Flandre amava cacciare da sola, amava vivere da sola. Ma nel suo piccolo cuore, ormai annegato nel buio, ancora desiderava qualcuno con cui condividere le sue abilità, le sue capacità e i suoi piaceri. Era lei, era lei, era maledettamente lei. Il caso, la sorte, il destino: di chiunque fosse il merito, aveva trovato un nuovo punto di riferimento.
    Quando il delirio prese vita di fronte ai suoi occhi, quando il mondo si tinse di rosso, le urla si levarono alte nel cielo, il dolore impregnò l’aria e la gioia, la frenesia, il furore e la superiorità di quella donna si fecero concrete e tangibili, in Flandre si accesero una brama livida e una smania irrefrenabile . Attirata dai suoni, dai profumi, dagli odori e dalle immagini, piantò le sue unghie nella corteccia secca di un albero, si issò rapida, veloce fino ad un ramo spesso, sufficientemente grande da reggerla. E osservò con l’acquolina in bocca, la pancia che brontolava e ululava. Irrigidì ogni muscolo per evitare di lanciarsi verso di lei, verso quel banchetto succulento. Ingoiò la fame, la saliva, la voglia di scaldarsi in un quel mare rosso, il desiderio di rosicchiare le vertebre e i nervi e rimase immobile, tremando, rabbrividendo di eccitazione, di volgare piacere fisico. Aspettò, si controllò, sopportò quello spreco di cibo, quel bagno scarlatto finendo persino col mordere se stessa, ma rispettò la compagna alfa, la creatura che stava suggendo il sangue con un piacere quasi paragonabile al suo. Soffocò un ringhio, una richiesta di unirsi al banchetto, e avvertì lei stessa un’ondata di calore e il sapore ferroso sulla lingua quando la guancia dell’ultima bambina venne strappata via da un morso. Deglutì acqua, masticò a vuoto, leccandosi ancora, ancora e ancora la bocca, pulendosi la ferita auto-inferta. Non bastava. Quelle due misere gocce scure non erano niente, nulla, neanche un piccolo assaggino. Aveva fame, tanta fame, troppa fame. Soffriva, ed era convinta che, se non avesse fatto subito qualcosa, sarebbe finita con l’attaccare l’unica creatura viva nei paraggi. E non le sembrava la scelta più intelligente da fare.
    Incapace di resistere oltre, si lasciò sfuggire un sospiro, un mugolio tra le labbra e saltò giù, dandosi la spinta con le mani e con i piedi, lanciandosi verso la fanciulla in bianco a braccia aperte. Non ci restò male quando le mani dell’altra –e i suoi artigli- si chiusero sui suoi polsi, tenendola sollevata a mezz’aria. Sorrise, scoprendo i canini da vampiro, dondolandosi appena con i piedi e inclinando il capo di lato. Da quella distanza, Flandre poté specchiarsi nei suoi occhi preziosi, venendoci quasi risucchiata dentro. L’espressione della ragazza era, allo stesso tempo, perplessa e infastidita.
    «Mi piaci anche più di prima!» esclamò la bambina ridendo, senza distogliere lo sguardo da lei, allargando le narici, mentre lo stomaco, sempre più fastidioso, reclamava un pasto. Non voleva attaccarla, non voleva mostrarsi ostile nei suoi confronti. Non aveva minimamente preso in considerazione una possibile reazione della sua nuova compagna, ma non importava. In caso le cose fossero andate nel verso sbagliato, Flandre era pronta a giocare un po’, giusto per sventolare bandiera bianca poco dopo. Non si era mai sentita così euforica, salvo le volte che aveva dovuto lottare per guadagnarsi da vivere. Non si era mai sentita così leggera. Le piaceva la persona che aveva davanti; le era anche piaciuta quella presa in grado di staccare le mani ad un qualunque essere umano. Ma la vampira aveva la pellaccia dura e non si lasciava catturare se non lo desiderava. Tanto meno rischiava ferite e danni se non poteva trarne qualche interesse.
    Sentì le mani della giovane allentare la stretta e venire accompagnata a terra da quelle stesse dita, in un moto quasi involontario, come se la sua nuova sorella di sangue stesse valutando il da farsi. La bambina sfilò piano i polsi dalla morsa e si accucciò sul selciato, poggiandosi coi palmi sul sentiero, piegando le ginocchia. Sbatté le palpebre più volte, senza smettere di guardarla, senza smettere di sorriderle entusiasta. Attese qualche secondo, come se si aspettasse una sorta di risposta, un commento, qualche parola. Poi, come se i suoi pensieri si fossero aggrovigliati tutti assieme, la bambina demoniaca scattò. Fece pressione sui piedi, spostò il peso e si diede una spinta in avanti e verso l’alto, gettandosi con tutto il corpo contro la persona che aveva davanti. Trovando solo una minima, naturale resistenza, il peso esiguo e la forza non irrilevante di Flandre, combinati insieme, fecero rovesciare la sua compagna di giochi direttamente sulla schiena con un tonfo. La bionda sopra e la ragazza dai capelli bianchi sotto. La vampira la annusò per brevissimi istanti, prima di avvicinarsi con gli occhi spalancati al viso dell’altra e pulire una guancia sporca appena di sangue. Leccò piano, quasi timorosa, assaporando il gusto ferroso del sangue fresco. La ragazza aveva uno strano sapore, che si mescolava perfettamente con quello del sangue, rendendolo quasi… più intenso. Poi si acquattò su di lei, mordendole il vestito dove era sporco di rosso e succhiando piano il tessuto. Rimase lì a guardarla, come un cucciolo che cerca di rendere felice il padrone, aspettandosi un qualche gesto di affetto.
    «Lo so fare anch’io.» disse poi, senza lasciar andare il vestito che stingeva al rosa nei punti macchiati. «Posso trasformarmi anch’io.»
    Fece una pausa, una breve pausa durante la quale il sapore del sangue divenne praticamente impercettibile. Lasciò l'abito, leggermente spiegazzato, e scivolò indietro, spostandosi da lei e sedendosi al suo fianco con le gambe incrociate. Continuò a fissarla con i suoi grandi occhi scarlatti, lisciandosi la coda laterale e sistemandosi il cappellino. Poi si grattò una guancia, fece vibrare piano le ali ancora raccolte contro la sua schiena e trotterellò verso i corpi morti dei bambini, restando sulle quattro zampe, seguita dal tintinnio dei cristalli appesi agli anelli.
    «Però tu sei più bella. E controllata.» disse piano, annusando le carcasse ed esplorando le loro ferite e le mutilazioni. Era un lavoro praticamente perfetto. Meglio di quanto lei non avesse mai fatto. Anche perché, quando Flandre uccideva, avanzava molto meno cibo. Lo strappo sulla guancia fece riaffiorare un gorgoglio di odio represso nel suo cuore; Remilia e il suo viso di perla. Remilia che aveva sfigurato ma che, probabilmente, nel giro di qualche giorno aveva rigenerato ogni ferita. Remilia a cui aveva quasi scoperchiato il cranio. Sbuffò, scosse il capo e si rialzò. Ormai quella era roba vecchia. Vecchia di qualche mese, ma già ammuffita. Non doveva più pensarci. Non sarebbe tornata, mai più. Preferiva vivere per strada, nascondersi nelle rientranze e cacciare senza nessuna restrizione. A parte gli orari, dato che la luce del sole continuava ad essere un problema per lei. Alzò le braccia al cielo stiracchiandosi, continuando ad osservare quel corpo così meravigliosamente offerto a lei ma che non avrebbe mai toccato.
    Prese un respiro profondo e sorrise al demonio di fronte a lei: era felice, felice di aver trovato finalmente qualcuno come lei. Era sorpresa, piacevolmente sorpresa e stordita dall'euforia di quello spettacolo. Era intontita, leggermente intontita dalla fame e desiderosa di affogare la faccia in quelle carcasse aperte. Ma non l'avrebbe fatto e si sarebbe trattenuta. Magari le avrebbe dato fastidio o, così facendo, avrebbe indispettito l'altra. Perciò rimase ferma immobile dov'era, viaggiando con gli occhi dal pasto scoperto alla sua nuova -sperava- futura amica. O compagna di giochi. Una compagna di giochi certamente migliore di quella snob della sorella.

     
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