Il Quarto Regno

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  1. Frenz;
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    IL QUARTO REGNO

    I


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    La notte era frizzante nonostante l’incombere di aprile.
    Avvolta nella giacca pesante, Egeria camminava rapidamente tra la gente indaffarata della Città di Mezzo. La piazza del primo distretto era luminosa, affollata e chiassosa come al solito: residenti e commercianti, avventurieri e guardie del Comitato portavano avanti le loro faccende con altalenante spensieratezza; solo occasionali volti tesi denunciavano la vicinanza -spaziale e temporale- della calamità abbattutasi su Radiant Garden.
    Egeria schivò un bambino che correva attorno all’aiuola in mezzo alla piazza e proseguì oltre, verso l’enorme portone a due ante. Trovava surreale quella calma. La notizia della scomparsa del baluardo della luce doveva ormai essersi sparsa ben oltre le orecchie del Comitato e dei mercenari, eppure non vedeva né panico né terrore. Forse credevano che la situazione fosse reversibile, o forse le contingenze avevano obbligato buona parte degli abitanti di quel mondo allo stoicismo –cinismo nel peggiore dei casi. La seconda opzione non le sembrava così assurda. Aveva passato una settimana nella Città di Mezzo, e in quel breve arco di tempo aveva interagito con decine di persone; nessuna di loro era nata lì. La Città di Mezzo era un mondo di profughi, gente che aveva perso la propria casa. Il proprio mondo. Gente che si era rassegnata ad andare avanti come poteva, conscia che da quel momento in avanti non sarebbe mai stata al sicuro.
    Si fermò di fronte al portone, ma non tirò subito il massiccio batacchio di ferro. E lei?, si trovò a pensare; lei si era rassegnata? Seguendo la logica avrebbe dovuto. Tutti i “naufraghi” con i quali aveva parlato avevano confermato che il loro mondo era stato distrutto. La maggior parte si era risvegliato nella Città di Mezzo, insieme a pochissimi altri compatrioti. Nessuno era stato “trasportato” e basta; l’eventualità datale da Argo era apparsa sempre più un ipocrita tentativo di consolazione ad ogni domanda che poneva, ad ogni lacrima di nostalgia che vedeva versare.
    Afferrò il batacchio e cominciò a tirare. No, concluse di non essersi ancora rassegnata; troppe cose non tornavano. Perché non si era risvegliata alla Città di Mezzo, come tutti gli altri? Perché solo lei, quando almeno una decina di persone riuscivano sempre a salvarsi? Doveva farselo bastare: persa quella speranza, cosa le rimaneva?
    Oltrepassò la porta e si lasciò dietro i rumori, le luci e la folla. La pesante anta di legno sbatté dietro di lei con un tonfo cacofonico. Era sola, in un’ambiente scuro e dalle pareti metalliche. Un hangar. Decine di “gummiship” -così Argo le aveva chiamate- erano parcheggiate di fronte a lunghe piste rettilinee che si perdevano nel buio. Si avvicinò ad una delle tante colonne che riempivano la stanza e abbandonò a terra lo zaino, così da dare sollievo alla spalla che lo sosteneva.
    Forse era arrivata troppo presto. Avrebbe dovuto incontrare un soldato in divisa, un membro del Comitato che doveva portare lei e altri “mercenari” nel luogo in cui Radiant Garden, senza un apparente motivazione logica, era sparito. Passò distrattamente un dito guantato sulla superficie liscia e lucida della colonna. Il suo sguardo perso seguiva gli arabeschi tracciati dalla mano. Sparito. Non distrutto. Sparito. Sparito insieme a tutti i suoi abitanti. Un fenomeno apparentemente senza precedenti: le informazioni che era riuscita a raccogliere su Radiant Garden escludevano che gli Heartless potessero esserne la causa, senza contare che anche le navi mandate ad investigare erano andate disperse pur non avendo ricevuto assalti di sorta.


    Ma era davvero privo di precedenti?
    Egi2_3


    Interruppe ogni movimento di dita e occhi, colta da un’ormai ricorrente stasi delle percezioni. Che un fenomeno simile fosse accaduto anche ad Oriam? Se l’era chiesto l’istante stesso in cui aveva terminato la lettura dell’annuncio. Dato che nessuno sembrava conoscere il suo pianeta natale, l’ipotesi esisteva.
    Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi, cercando di mettere in ordine i pensieri. Si rendeva conto che la possibilità fosse minima, che forse stava solo rimandando il confronto con la verità, ma non poteva esimersi dal verificare di persona. Quella era la speranza più ferma e più vicina a cui potesse ancora tenersi aggrappata. Era disposta a correre i rischi.

    --------

    Picchiettava le dita sulle ginocchia e guardava fuori dal piccolo oblò. Non erano ancora partiti, quindi i sui occhi si posavano solo su pareti di ferro, muletti e taniche di benzina. Eppure, nonostante non ci fosse nulla da guardare, il suo volto parzialmente coperto dalla sciarpa bianca rigata di nero non si era mosso che per catturare rapide immagini dei suoi compagni di viaggio, saliti proprio in quel momento. Erano in quattro: aveva già incontrato due di loro, nell’hangar poco prima.
    Il primo ad arrivare era stato un uomo imponente, dall’abbigliamento e l’aspetto singolari: lunghi capelli di un rosa acceso -colore che si ripeteva sulle sue labbra e le sue unghie-, pantaloni di pelle, petto nudo. Si era presentato come Azrael.
    Joh Doe -il soldato del Comitato e pilota del loro mezzo- era arrivato poco dopo. Aveva spiegato rapidamente e con evidente disagio il suo e il loro ruolo nella missione e proposto di partire il prima possibile, non appena anche gli altri fossero arrivati. Egeria era rimasta in silenzio, non essendo stata interpellata. John aveva mostrato loro la gummiship con la quale avrebbero viaggiato, così la giovane era salita per prima e si era scelta un posto appartato. Gli altri due dovevano essere arrivati poco dopo.
    La prima persona che Egeria vide entrare dal portellone fu una giovane donna dall’aspetto austero. Alta, portava i capelli castani corti e disordinati intorno al viso grazioso ma percorso da una cicatrice che aveva accecato uno dei due occhi azzurri. Nel guardare il suo abbigliamento, Egeria percepì un leggero ma distinto senso di inadeguatezza. Sopra la camicia bianca, la donna portava semplici ma efficienti protezioni in cuoio, che le davano un aspetto rassicurante e affidabile; Egeria, di contro, indossava abiti da tutti i giorni: stivaletti di cuoio, calze lunghe e pesanti, vestito corto con spalline, giacca e guanti entrambi neri, sciarpa bianca. Si domandò cosa avrebbero pensato di lei i mercenari. Non aveva nessun’armatura, nessun’arma in vista, né tantomeno la presenza o l’aspetto di un guerriero. Nello zaino nero che teneva in grembo c’era tutto ciò che aveva: un cambio d’abiti, qualche libro, un quaderno e la sfera di Kervion.
    Prese un profondo respiro, stringendo la stoffa delle calze tra le dita. Non doveva pensarci. Dubitava che il Comitato si sarebbe fatto domande simili sui pochi disposti a rischiare la vita e andare incontro all’ignoto.
    Quando riaprì gli occhi vide passarle vicino l’altro sconosciuto: un uomo ancora più alto di Azrael, ma che certo non condivideva con quest’ultimo la massa o il peso. Magro, dalla carnagione scura e i capelli neri, esibiva un trucco facciale quasi eccessivo, specialmente attorno agli occhi dorati. Era avvolto in abiti colorati ed esotici, come Egeria non ne aveva mai visti neanche durante la sua breve permanenza nella Città di Mezzo. Al fianco, teneva una spada che sembrava composta di un unico, arzigogolato pezzo d’ossidiana.
    Il senso d’inadeguatezza si tramutò in diffidenza, che Egeria dissimulò distogliendo lo sguardo. Il colore degli occhi di quell’uomo era identico a quello che gli occhi di sua madre avevano assunto quando aveva perso la memoria e l’aveva attaccata. Poteva essere un caso; poteva essere un colore comune, nel suo pianeta; ma la viva immagine di quel volto e di quelle iridi le impedirono di lasciar correre quel particolare. Quell’uomo andava tenuto d’occhio. Che le sue intenzioni fossero buone o meno, doveva capire se la sua condizione fosse in qualche modo simile a quella di sua madre: in quel caso, avrebbe avuto più di una domanda da porgli.
    La voce incerta di John richiamò la sua attenzione. Stava parlando a tutto il gruppo, seduto al posto di comando della nave, presentandosi per la seconda volta e armeggiando con i comandi al tempo stesso. Egeria si costrinse a distogliere lo sguardo dall’esterno e a rivolgerlo alla curiosa scena che si era andata formando nell’abitacolo: tutti i suoi “compagni” avevano preso posto sulle poltrone strette, ma la radicale e quasi alienante differenza nei loro aspetti e modi di fare le risultava quasi grottesca.
    Strinse a sé lo zaino.

    --------

    Non era certa di quanto a lungo avessero viaggiato. Poco, qualche ora al massimo, passata tra elucubrazioni interiori, falliti tentativi di lettura e passivi ascolti delle informazioni sciorinate da John. Per la maggior parte, informazioni delle quali era già a conoscenza, come il loro ruolo in quella “missione” e un approfondimento sullo sconosciuto fenomeno che avrebbero dovuto investigare.
    Egeria sospirò, lanciando un’occhiata al buio al di là dell’oblò. Più John andava nel dettaglio di quell’operazione, più le sue speranze di trovare qualcosa di effettivamente utile si affievolivano; sia perché il soldato era chiaramente ansioso di sbrigare velocemente un compito indesiderato, sia perché le “analisi” di cui aveva parlato non sembravano in alcun modo presupporre una loro partecipazione attiva. Più volte si era chiesta se la loro presenza su quella nave fosse davvero necessaria o una mera precauzione; ma una precauzione contro cosa?
    Fu di nuovo la voce del pilota a interrompere i suoi pensieri. «Siamo... siamo in arrivo.» disse, di nuovo a disagio «Occhi aperti e preparatevi: potrebbe succedere di tutto.»
    Sentì il rombo lontano dei motori affievolirsi, vide le stelle lontane rallentare la loro corsa. “Potrebbe succedere di tutto”, ripeté mentalmente. Lo sperava davvero.



    Primo post un po' "meh" per via della quantità di cose da dire e per la mia auto-diagnosticata inettitudine nello scrivere i primi post.


    Edited by Frenz; - 9/2/2016, 15:17
     
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5 replies since 6/2/2016, 22:46   309 views
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