Ruith

Lavoro per Contest: Così piccolo, davanti a...

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    Your smile, fragments and gentle voice have disappeared to the moon

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    Ruith





    Delicatamente, allungò le dita di fronte a sé, stendendo i palmi chiusi a pugno. Era calmo, concentrato sul piccolo cristallo posato sulla pergamena che aveva davanti. Sibilando leggermente a causa del naso otturato, inspirò quanta più aria poteva all'interno dei polmoni. Doveva farcela. Era mancato così poco, prima, e dover riprovare di nuovo proprio dopo che era stato così vicino ad avere successo era allo stesso tempo sia estremamente scocciante che incoraggiante.
    Delicatamente osservò dentro di sé, cercò quel flusso da cui aveva imparato ad estrarre l'energia e lo strattonò, penetrando attraverso le barriere che lo isolavano impedendone l'accesso. Volta dopo volta diventava più semplice riuscire ad arrivare ad esso, tuttavia ancora non era riuscito ad imparare a gestirlo in maniera adeguata.
    Conscio di essere costantemente osservato da Failariel, Ingwe deglutì nervosamente. Questa volta doveva farcela: un fallimento non sarebbe stato accettabile.
    Con lentezza, indirizzò la magia lungo le sue braccia, guidandola tramite la propria volontà, facendola fluire dai palmi al cristallo.
    Doveva mantenere la calma, non lasciarsi distrarre dalla possibilità di avere finalmente un successo. Inspirò… ed espirò… inspirò… ed espirò ancora.
    Un fruscio ed una piccola luce, un puntino quasi invisibile, apparve in mezzo alle sfaccettature della pietra. Sempre più delicatamente, con una cautela che cresceva di istante in istante, il giovane regolò il flusso, addolcendolo e regolandone la potenza. Riusciva a padroneggiarlo, sebbene a stento e malamente, ma, almeno adesso, aveva una sorta di controllo su di esso, un qualcosa che gli era mancato fino al tentativo precedente, un qualcosa che non aveva notato solo negli ultimi tentativi, come se prima gli fosse stato invisibile.
    In un certo senso, ora che ci pensava, era come quando si allenava con la spada: movimenti rigidi e sferzate piene soltanto di forza non sarebbero servite a molto in un duello, anzi, non sarebbero stati altro che uno spreco di energie e aperture per i nemici. Si trattava di equilibrio, del sapersi bilanciare e adeguarsi ai movimenti dell'avversario, di saperli leggere e, allo stesso tempo, contrastarli, approfittando dei buchi che si sarebbero inesorabilmente mostrati.
    Quello che in quel momento stava facendo era davvero simile: il flusso dentro di lui era come un nemico a cui doveva adattarsi e, allo stesso tempo, un qualcosa a cui era necessario imprimere una determinata forza in precisi punti per essere capaci di manovrarlo.
    Quasi lo divertiva il pensiero che gli insegnamenti di Rodrick potessero tornargli utili in una situazione come quella.
    Con uno spasmo, le braccia si scostarono leggermente dal cristallo, mentre una ferita mai del tutto chiusa si apriva nuovamente dentro di lui ed il dolore al petto tornava con rinnovata acutezza a manifestarsi.
    Un singulto e tutta l'aria presente nei suoi polmoni fuoriuscì sibilando.
    Non si era ripromesso che non ci avrebbe più pensato, che avrebbe dimenticato quello che era successo?
    Perché doveva cadere ogni volta in quella trappola, perché doveva sempre trovare qualcosa con cui poi ricollegarsi a quell'incubo lontano?
    Un suono stridulo, troppo acuto si generò dalla gemma in mezzo alle sue mani. Crepe su crepe avevano iniziato a rincorrersi sulla superficie spigolosa del cristallo, diventando in meno di un secondo una ragnatela fittissima che lo ricopriva nella sua interezza.
    Un ultimo sibilo ed esplose. Schegge si incastrarono nei suoi palmi aperti, mentre l'energia che aveva tentato di controllare si manifestava nella sua piena potenza, ustionando la carne delle mani, scavando la pelle.
    Tremando, le palpebre socchiuse e gli occhi già lacrimanti per il dolore, Ingwe si allontanò dai resti della pietra.
    Non voleva girarsi. Non voleva vedere lo sguardo di disappunto di Failariel, quell'espressione spazientita e leggermente acida che le aveva visto sul volto fin troppe volte.
    Non aveva mai fallito così tanto, sia sul piano emotivo che su quello della magia. Non si era mai sentito così deluso.
    Preferiva quando era totalmente vuoto, quando non c'era niente a disturbarlo se non quella leggera nausea di sottofondo, quell'indifferenza che sembrava permeare il suo intero essere ed il grigiore che, invece, inglobava tutto il mondo. Eradicare, strappare, mutilare quei sentimenti e quel dolore. Quello non sarebbe stato così terribile, non sarebbe stato così orripilante come continuare a convivere con essi. Il collo incassato tra le spalle incurvate, come se volesse proteggersi da qualcosa, si voltò leggermente verso la sua insegnante.
    «Mi dispiace, mi sono distratto e… ho fatto un casino.»
    Non cercava scuse, voleva solo evitare una possibile sfuriata o un altro rimprovero. Non era proprio in vena di subirne, in quel momento.
    Con dei ticchettii viscidi, il sangue continuava a colare dalle sue ferite, scivolando lungo le dita, fino a cadere sul pavimento in legno.
    Un grugnito ed il rintoccare ritmico del bastone contro il terreno annunciarono che l'anziana si era alzata.
    Istintivamente, Ingwe tese i muscoli, preparandosi a subire la lavata di capo che sentiva star arrivando e che, nonostante tutto, sentiva anche di meritare.
    Un tocco delicato, un fruscio ed una sensazione fresca, morbida sulla pelle della mano.
    In silenzio, lo sguardo concentrato sui tagli e sulla carne bruciata, Failariel lo stava curando, ricostruendo la pelle ed i muscoli. Raramente era stata così gentile con lui, così… materna, quasi? C'era un che che non aveva mai visto nella sua espressione, un sentimento composto da tristezza, preoccupazione e compassione, forse? Era strano da parte sua comportarsi in quel modo; anche se molto avanti con l'età, infatti, la donna non era definibile paziente o gentile, anzi, spesso, nonostante il suo corpo fosse gracile e rinsecchito, similmente ad un frutto avvizzito, la forza che nascondeva era, forse anche grazie all'ausilio della magia, impressionante e pericolosa, sopratutto quando accompagnata dalla rabbia.
    «Non ti devi preoccupare. È normale che incidenti di questo genere capitino ad un novizio come te.»
    Non una volta lo aveva guardato direttamente. Lo sguardo era rimasto sempre puntato o sulle ferite o sui frammenti di cristallo che raccoglieva nel palmo da terra.
    Con una leggera torsione del polso ed un raggio di luce, la pietra fu riparata e, ancora una volta integra e priva di imperfezioni, venne posata sulla pergamena sgualcita.
    «Eppure, non è da te lasciare che le tue emozioni ti distraggano o interferiscano col tuo lavoro. Anzi, ad essere sincera, il fatto che tu riuscissi a far sì che il tuo stato d'animo non interferisse con i tuoi tentativi di controllare la magia, beh, era una delle tue doti migliori.»
    Lo sguardo corrucciato, la donna si voltò verso di lui, guardandolo dritto negli occhi.
    «E quello che è successo ora mi ha preoccupata.»
    La linea delle sopracciglia incurvata verso il basso, l'espressione titubante: raramente l'aveva vista così tesa o impensierita, solo in presenza di casi o malati molto gravi.
    «Non sono una persona che gira molto attorno alle cose e vedo che non stai bene, al momento, quindi per oggi la lezione termina qui, tuttavia...»
    L'espressione dell'anziana si addolcì facendo scomparire molte delle rughe profonde comparse sul suo volto.
    «...vuoi dirmi cosa ti ha turbato?»
    No. La risposta era sorta nella sua mente prima ancora che l'anziana avesse terminato la sua domanda. Non voleva dirle cosa stava provando, cosa era successo. Un giorno, forse, avrebbe trovato abbastanza coraggio, ma ora come ora non voleva rivivere quel dolore.
    Desiderava soltanto di rimanere un minuto da solo, di potersi isolare nuovamente nell'apatia, nell'assenza di quella tristezza ed angoscia.
    «Tranquilla. Non è niente.»
    Non era vero, ma non sapeva cos'altro dire, come altro poterle comunicare che non voleva parlarne senza essere offensivo.
    «Mi serve solo un attimo da solo, nient'altro.»
    Era stato freddo, forse troppo, ma in quel momento voleva solo poter uscire dalla casa, poter stare un attimo all'aperto, in mezzo alla neve e al gelo.
    «Certo.»
    Un sospiro leggero accompagnò quell'unica parola, mentre l'anziana annuiva stancamente, come a confermare un qualcosa che aveva avuto in mente fino a quel momento.
    Sollevato, espirò tutta l'aria che aveva tenuto dentro di sé in un unico respiro fluido, eliminando anche la tensione e l'ansia che attanagliavano il suo corpo.
    «Grazie.»

    Amava il freddo. Amava la sensazione pungente, quasi dolorosa, a volte, che sentiva sulla pelle scoperta a contatto col ghiaccio. Era qualcosa che riusciva a farlo star bene, a fargli dimenticare ciò che aveva visto e vissuto, a fargli dimenticare ciò che era stato.
    Senza sapere dove andare, si allontanò dalla casa di Failariel, la neve che crepitava sotto le suole degli stivali, dirigendosi verso il bosco. Voleva camminare, voleva scappare.
    Odiava quei ricordi, odiava il non potersene separare, l'essere loro succube. Odiava anche la sete di sangue e vendetta che lo scuoteva ogni istante che pensava alla morte di Merenwen. Odiava quel dolore.
    Era schiavo di un qualcosa da cui poteva solo fuggire, da cui poteva avere una liberazione puramente momentanea.
    Ed era in quella liberazione che sperava, in quella fuga.
    Solo che non poteva scappare, non se il mezzo che tentava di sfruttare per allontanarsi gli ricordava di loro, non se anche scappando non riusciva a liberarsi da quelle catene.
    Era davvero così impotente di fronte a quello? Così impotente di fronte al dolore, al lutto, ai ricordi?
    Davvero non aveva nemmeno la forza per distruggere quei legami, per non lasciarsi più torturare da quei sentimenti?
    Aveva paura che quella fosse la verità, che quella sua inutilità e mancanza di volontà fossero reali.
    Come poteva sperare di poter abbandonare quel mondo, di poter fuggire da quell'inferno quando ogni azione che compiva, ogni suo gesto, ogni cosa riusciva a riportare la sua mente a loro?
    Cercava del conforto, qualcosa che gli potesse indicare la strada giusta tramite la quale uscire da quel labirinto in cui si era rinchiuso.
    Non sapeva il perché, ma quel paesaggio, quell'oscurità appena rischiarata dalla tenue luce dell'aurora, quegli alberi che lo circondavano da ogni lato, tutto quello lo aiutava a pensare. Era andato lì la prima volta che aveva sentito parlare di magia, la prima volta che aveva accettato che c'erano altri mondi là fuori, tanti quanti le stelle che brillavano nel cielo terso.
    Si era sentito sperduto, completamente solo e terrorizzato.
    Cosa era lui, cosa era Felagund in confronto a tutto quello?
    Gli era sembrata una follia, un frutto dei vaneggiamenti di una vecchia pazza: quando l'aveva sentito la prima volta, ma in realtà non gliene era importato nemmeno troppo. Allora non gli importava di nulla, praticamente. Aveva quasi dimenticato cosa fossero il dolore, l'angoscia o qualunque altra emozione. Aveva annuito e si era detto che non era importante: finché l'anziana lo faceva restare da lei e gli dava del cibo, andava bene. Però lentamente aveva iniziato a pensarci, a considerare quell'idea. Dopotutto, non era così illogico che esistessero altri mondi al di fuori di quello, non v'era nessuna garanzia che non vi fossero. Poteva solo fidarsi delle parole della donna, di quelle parole che gli erano sembrate troppo piene di dettagli per poter essere finzione, troppo vivide e ricche d'immagini per poter essere una bugia. Dopotutto, aveva accettato che la magia esistesse, che non era solo una superstizione dei bifolchi che i potenti sfruttavano per mantenere più sotto controllo le masse. Era realtà, per quanto dissimile da ciò che la popolazione pensava fosse.
    Cosa era, dunque, quel mondo in confronto a ciò che esisteva al di là del cielo? Cosa erano le superstizioni di coloro che lo abitavano, cosa erano le leggi, le classi sociali, le guerre? Niente. Niente di niente. Di fronte alla vastità che li circondava, quelle cose non valevano niente. E lui ancora meno di esse. Se lui era niente di fronte a quelle norme, a quella massa di gente che lo circondava, di fronte alle leggi, alle ingiustizie, all'odio, cosa era di fronte all'universo? Meno di niente.
    Ed era questo ciò che desiderava.
    Sentirsi meno di niente, sentirsi un qualcosa di insignificante, qualcosa i cui sentimenti e le cui motivazioni non avevano valore.
    Solo dopo questo sarebbe potuto ripartire, solo dopo questo avrebbe potuto avanzare, dimenticare e iniziare da capo. Solo dopo che avesse vissuto tutto questo.
    E dopo tutto quello, dopo quella catarsi, quanto sarebbe stato bello poter essere qualcuno? Poter essere una persona diversa, libera da quell'odio e da quegli incubi che lo tormentavano. Non sarebbe stato bello essere conosciuto per qualcosa di buono, per una qualche azione in cui sarebbe stato capace di fare la differenza? Magari, sarebbe potuto diventare quello che sognava quando era più piccolo, un eroe, o qualcosa di simile; un personaggio di quelle fiabe dove tutto aveva un lieto fine ed i personaggi vivevano felici e contenti fino alla fine dei loro giorni.
    Sarebbe stato molto bello.
    Un sorriso triste si affacciò sul suo volto, mentre, passo dopo passo, continuava la sua lenta avanzata.
    Era così piacevole avere ancora la capacità di sognare, di potersi illudere.
    Dopotutto, cosa erano quelle se non illusioni?
    Voleva imparare ad usare la magia, voleva imparare a volare, a scappare da quel luogo, ma come poteva farcela quando tornava sempre, sempre a pensare a loro?
    Merenwen, Rodrick, Eresse.
    Pesi che non sarebbe mai riuscito a scrollarsi di dosso, macchie sulla sua coscienza che non avrebbe mai lavato.
    Inutile sperare, inutile sognare, se continuava così, se continuava a non riuscire a sradicare nemmeno tre volti dal suo cuore.
    Era troppo privo di volontà, troppo privo di spina dorsale per andare avanti.
    Non era quella la prima volta. Non era la prima volta che un'azione faceva riaffiorare i ricordi. Una cosa pericolosa, troppo pericolosa, le memorie. Bastava che una riaffiorasse alla mente per far sì che tutte le altre seguissero, riportando a galla sentimenti, sensazioni ed emozioni.
    Persino davanti a se stesso, persino davanti ai suoi ricordi, lui era un essere infimo, piccolo, privo della capacità di resistere o opporsi.
    Eppure cosa gli rimaneva se non quello, se non le immagini di ciò che era stato?
    Era stato maledetto. Era da quella notte che non provava più niente se non quando si ricordava di loro. Non fosse stato per quelle memorie, lui non sarebbe stato altro che un guscio vuoto, un ammasso di carne, ossa e sangue capace di muoversi da solo.
    Stancamente girò su se stesso, dirigendosi verso casa di Failariel.
    Doveva andare avanti. Doveva continuare a camminare verso il proprio obbiettivo, senza voltarsi indietro. Si trattava solo di fare questo. Sopprimere, ignorare, dimenticare, annullare.
    Quei volti dovevano scomparire.
    Quei ricordi dovevano perdere potenza, perdere quel controllo che esercitavano su di lui e se la sua identità, il suo passato scompariva con loro, tanto meglio.
    Doveva riuscirci, o sarebbe per sempre rimasto fermo in quello stato, era l'unica via. Doveva, o non avrebbe mai potuto ricominciare. Doveva, o non sarebbe mai riuscito a scappare.

     
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